Il Notiziario di
Sky & Telescope

Edizione italiana a cura di Mario Farina

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La rivista indispensabile di astronomia

Mercoledi 28 giugno

A sinistra: Immagine nella luce bianca del Sole del 28 giugno. La ripresa contiene quasi tutti i dettagli visibili con un piccolo telescopio. Cortesia Big Bear Solar Observatory. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

La nostra stella maculata

Con l'avvicinarsi del massimo dell'attività, il nostro Sole sta diventando un luogo molto attivo. Secondo il Sunspot Image Data Center in Belgio, il numero delle macchie è prossimo a 200, diverse delle quali chiaramente visibili persino con i telescopi più piccoli. "E' il ciclo di macchie più numeroso di questo ciclo che io ricordi" ha detto Gary Seronik di Sky & Telescope. Con un telescopio Questar di 9 cm, il 28 giugno Seronik ha contato oltre 10 gruppi di macchie. In questi giorni, la superficie solare è veramente impressionante da osservare, persino con un piccolo telescopio.

A dispetto della presenza di numerose macchie, l'attività geomagnetica solare rimane tranquilla e la previsione è per un proseguimento in questo senso. Ciò significa che, almeno per i prossimi giorni, sarà difficile osservare fenomeni aurorali intensi.

Seguire l'attività solare in questo periodo di massima è particolarmente semplice, persino se il cielo è coperto. Sono mumerosi i siti sul Web che forniscono spettacoliari immagini del Sole a differenti lunghezze d'onda. Tra questi, il Solar and Heliospheric Observatory (SOHO), il Big Bear Solar Observatory e SpaceWeather.com. Ricordate: mai guardare il Sole direttamente senza l'ausilio di filtri appropriati. Per dettagli sull'osservazione sicura del Sole, leggete la nostra guida Filtri solari sicuri.


Mercoledi 28 giugno

A sinistra: Il rapporto degli isotopi di idrogeno all'interno del meteorite marziano QUE 94201, che misura 2,3 per 2 per 1,5 centimetri, fa ritenere che Marte abbia più acqua di quanto si sia pensato sinora. Cortesia NASA/Johnson Space Center.

Altri indizi della presenza di acqua su Marte

Chiusi i battenti sulle notizie della settimanan scorsa, ne arrivano altre due su importanti scoperte relative alla presenza di acqua sul pianeta rosso, entrambe risultato di studi effettuati su meteoriti marziani. Uno è la prova della presenza di acqua in quantità superiori a quelle stimate sino ad oggi mentre l'altro rivela che tipo di acqua le future missioni automatiche (o con equipaggio umano) vi troveranno.

Sino ad oggi, secondo i planetologi, quando Marte formò la sua acqua aveva le stesse percentuali di idrogeno e del suoo isotopo più pesante, il deuterio, della Terra. Il rapporto deuterio-idrogeno nell'atmosfera odierna di Marte è diverse volte superiore a quello dell'acqua di mare terrestre. Questo significherebbe che un'enorme quantità del più leggero idrogeno sarebbe sfuggita nello spazio e, conseguentemente, il pianeta potrebbe averne solo una percentuale pari al 10-20 per cento di quella di un tempo. Ma un nuovo studio di Laurie A. Leshin (Arizona State University), che apparirà il 15 luglio su Geophysical Research Letters, contraddice questo assioma. All'interno del meteorite QUE 94201 ha scoperto un rapporto deuterio-idrogeno doppio che, probabilmente, rappresenta quello attuale della crosta del pianeta rosso. L'idrogeno potrebbe essere andato perso al momento della creazione del pianeta , prima che l'acqua finisse al suo interno, a causa dell'intensa radiazione ultravioletta proveniente dalla nostra giovane stella. La Leshin ipotizza anche che le comete, che hanno lo stesso rapporto deuterio-idrogeno trovato in QUE 94201, abbiano fornito buona parte dell'acqua del pianeta. In ogni caso, i suoi dati indicano che la crosta attuale di Marte potrebbe dare rifugio ad una quantità d'acqua pari a due-tre volte quella che si riteneva sino ad oggi, teoricamente quanto basterebbe a coprirne l'intera superficie con uno strato profondo da 50 a 200 metri.

Una maggiore comprensione della composizione delle riserve nascoste di acqua potrebbe arrivare dalle analisi del meteorite Nakhla effettuate da Carleton Moore (ASU) e dal suo team. Cinquanta anni fa, l'allora studentessa Julie Canepa (Los Alamos National Laboratory) studò la clorite ed i sulfuri della collezione di basalti dell'ASU, gli alti livelli di clorite hanno diversificano i meteoriti marziani da quelli asteroidali. Quando lo studio di ALH48001 svelò la presenza di sali derivati dall'acqua, Moore ed il suo team rianalizzarono il loro meteorite concludendo che l'eccesso di clorite potrebbe essere dovuto all'infiltrazione di sali d'acqua. Ulteriori prove rivelarono una varietà di ioni e sali legati all'acqua salmastra: clorite, solfato, fluorite, sodio, magnesio e calcio. Di questi, il sodio e la clorite erano i più abondanti. Moore interpreta la presenza di questi elementi come tracce di "un oceano marziano primordiale" permeato di composti salini simili a quelli terrestri. I dettagli compariranno nel numero di luglio di Meteoritics & Planetary Science.


Martedi 27 giugno

A sinistra: Max Bray (a destra) nel 1995 posa con Eduardo Vega all'osservatorio che porta il loro nome di Benson, Arizona. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Max Bray, 1912–2000

Max Bray, uno degli ottici e costruttore di telescopi più raffinati del XX secolo è deceduto il 30 maggio a Phoenix, in Arizona. Nei quasi 70 anni di carriera ha costruito praticamente tutti i tipi di strumenti ottici. Un artigiano senza pari oltre che appassionato osservatore del cielo notturno e marito e padre devoto.

Bray nacque a in The Dalles, nell'Oregon, il 21 maggio 1912. Il suo primo specchio telescopico, unparaboloide di 11 cm f/8, lo costruì all'età di 19 anni. Nel 1933 iniziò a lavorare il vetro pr professione ai Tinsley Optical Labs di Berkeley, in California. Si trasferì a Los Angeles e fondò la Bray Optical Co. poco dopo l'inizio della seconda guerra mondiale, costruendo principalmente ottiche per applicazioni militari. Nel 1963, Bray eseguì le rifiniture sulle ottiche della camera del Mariner 4, la prima sonda che riprese dei primi piani di Marte. In quel periodo, l'ingegnere ottico Donald Perry progettò un Maksutov-Cassegrain f/9.5 che Max iniziò a produrre e commerciare. Negli anni successivi, produsse migliaia di Ad Astra Maksutovs, tra cui una versione di 25 cm che divenne lo strumento principale del Vega-Bray Observatory a Benson, in Arizona. Ritiratosi dall'attività a tempo pieno nel 1982, Bray continuò a costruire e vendere telescopi a casa, impegnandosi anche in diversi altri progetti.

"L'abilità di Max nel costruire telescopi era pari alla sua capacità di avvicinare le persone", ha scritto l'amico di lunga data Andre Bormanis. "Per ogni telescopio che ha costruito, si è fatto un amico. Quello che ricorderò sempre sarà la sua generosità senza limiti. Ha dato molto a molte persone: tempo, incoraggiamenti e splendidi telescopi".


Giovedi 22 giugno

A sinistra: Il bordo di questa scarpata marziana vicino al polo sud porta i segni di quelle che sembrano essere erosioni recenti prodotte da acqua. Questa ed altre immagini riprese dalla sonda Mars Global Surveyor sono state presentate oggi dalla NASA come prova della presenza di flussi d'acqua sul pianeta rosso nell'ultimo milione di anni. L'immagine misura circa 2,8 chilometri di lato. Si ringraziano NASA/JPL/Malin Space Science Systems, Inc. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Segnali della presenza di acqua su Marte

C'è acqua su Marte? Questa domanda ha tormentato gli astronomi per più di un secolo e per decenni ha guidato l'esplorazione del pianeta. Le conseguenze della presenza del prezioso liquido sul pianeta rosso sarebbero profonde, la più importante delle quali è relativa alla presenza di vita che richiederebbe per la sopravvivenza acqua allo stato liquido. Sappiamo che all'inizio della sua storia Marte aveva l'acqua. Il dati ricevuti dal Viking orbiter ci fornirono le prove della presenza di antichi bacini fluviali e di canali di deflusso. La maggior parte degli scienziati ha però sempre ritenuto che sulla superficie del pianeta non scorre l'acqua da almeno un miliardo di anni.

Questo modo di vedere sta comunque rapidamente cambiando. Con le immagini ad alta risoluzione riprese dal satellite Mars Global Surveyor (MGS), Michael Malin e Kenneth Edgett (Malin Space Science Systems) hanno trovato le prove di quella che potrebbe essere la presenza di recenti flussi di acqua su Marte. Le loro scoperte, che appariranno sul numero del 30 aprile di Science, implicano che in qualche periodo dell'ultimo milione di anni, dell'acqua sia fluita liberamente sul pianeta, formando poi i burroni ed i canali di deflusso che sono stati osservati dall'MGS.

Determinare l'età della formazione di questi precipizi è difficile. Generalmente, più antica è una formazione geologica della superficie di Marte, più appare piena di buche e craterizzata. I canali di deflusso osservati dalla sonda appaiono però privi di crateri. Inoltre, qualcuno dei burroni appare privo di polveri, a dispetto di un ambiente dove venti con polveri soffocanti sono comuni. Una regione priva di polveri, significa un'età molto giovane.

La domanda resta ancora come l'acqua sia arrivata in superficie. Praticamente tutti i deflussi si trovano a latitudini ad almeno 30° dall'equatore. In quelle regioni, òe temperature superficiali vanno da -70° a -100° Celsius ed il terreno è un solido, gelato sino ad una profondità da 3 a 6 chilometri. I geologi si interrogano quindi su come l'acqua allo stato liquido possa essere fluita in questi luoghi.

Inoltre, i deflussi tendono a dirigersi verso i poli, anziché all'equatore, ciò significa che si allontanano dal Sole. Intuitivamente, sarebbe ovvio il contrario, se i flussi fossero il risultato di ghiaccio scongelato, il riscaldamento solare ne sarebbe una probabile causa. La locazione dei flussi ha severe conseguenze: se gli eventi che hanno portato alla formazione di acqua fossero dovuti a riscaldamento geotermico, dovrebbro trovarsi in qualche zona a caso, o al limite raggruppati, intorno alle aree geotermali conosciute di Marte.

Un altra grossa incognita dovuta al rilevamento di acqua allo stato liquido su Marte è che ha avuto un arco di vita estremamente breve. Se l'acqua raggiunge la superficie, bolle ed evapora istantaneamente perché la pressione atmosferica marziana è bassa. Perché l'acqua potesse formare le strutture geologiche osservate, deve essere fluita molto velocemente ed in notevoli quantità. Malin ed Edgett stimano che per i burroni più piccoli i flussi siano stati formati da circa 2.500 metri cubi d'acqua, il volume di una piscina olimpionica; quelli più grandi potrebbero essere stati formati da una quantità d'acqua pari a 250.000 metri cubi, quanto basta per sostenere 100 persone per 20 anni.

Una possibile spiegazione della presenza di queste masse d'acqua è che sui pendii rivolti ai poli, una falda al di sotto della superficie fosse collegata al ghiaccio nei punti dei pendii dove questo era all'aperto (nella parete di un cratere, per esempio). La pressione avrebbe lavorato dietro al ghiaccio sino a che il tappo fosse saltato. Questo meccanismo potrebbe anche spiegare perché i deflussi non siano stati osservati nei pendii rivolti al Sole. A causa della continua esposizione, l'acqua che eventualmente fosse emersa sarebbe sublimata immediatamente, il ghiaccio non si sarebbe formato e di conseguenza anche nessun burrone.

Malin e Edgett si sono affrettati a puntualizzare che queste scoperte sono lontane dall'essere definitive e molte questioni restano ancora senza risposta. In oltre 150 osservazioni separate dei precipizi solo uno, ad una risoluzione di 3 metri per pixel, sembra che abbia dei crateri ed ancora non sanno perché non siano apparse formazioni più antiche. Nei prossimi mesi, l'MGS porrà la sua attenzione sulle regioni dei deflussi più giovani, per vedere se in qualche modo sono cambiate. Se verranno osservati dei cambiamenti, significherà che l'acqua sul pianeta scorre ancora.


Martedi 20 giugno

Salvate per gli astronomi le lunghezze d'onda millimetriche

A sinistra: Quando, intorno al 2010, verrà ultimato, l'Atacama Large Millimeter Array (ALMA, in spagnolo significa "anima") potrebbe diventare il più potente telescopio del mondo a qualsiasi lunghezza d'onda. In questo disegno, una delle 64 antenne viene tirata verso un'altra stazione per cambiare la configurazione del radiotelescopio. Si ringrazia l'European Southern Observatory. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Dopo oltre tre anni di negoziati e progetti, gli astronomi hanno ottenuto la protezione di una larga banda dello spettro radio per la ricerca astronomica. I 2.500 delegati internazionali presenti alla World Radiocommunications Conference (WRC) di Istanbul, il 16 giugno si sono accordati per ampliare di oltre 90 gigahertz (GHz) le frequenze riservate all'astronomia, mettendo a disposizione lo spettro tra 71 e 275 GHz per la ricerca. Queste frequenze corrispondono alle lunghezze d'onda millimetriche, una delle aree più calde della ricerca astronomica.

Con la continua evoluzione della tecnologia, come nel caso della costruzione dell'Atacama Large Millimeter Array in Cile, sarà importantissimo avere queste finestre osservative prive della confusione indotta dalle trasmissioni artificiali. I servizi radio commerciali stanno iniziando solo ora ad abusare di questa regione ed il nuovo accordo assicurerà che il suo utilizzo sarà permesso solo sulla base della non-interferenza. La WRC ha anche rivisto le frequenze assegnate alle trasmissioni dai satelliti verso la Terra, restringendole alla porzione dello spettro non necessaria alla scienza. Secondo Johannes Andersen, Segretario Generale dell'International Astronomical Union, la decisione della WRC evidenzia il riconoscimento dell'"emissione ambientale standard nello spazio così come di quella sulla Terra".


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