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Sky & Telescope

Edizione italiana a cura di Mario Farina

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Un nuovo direttore per il JPL

La nube dei sopravissuti

La magnetosfera terrestre fotografata dall'IMAGE

La Cassini osserva Himalia

Vacilla l'ipotesi della "luce cinerea"


Mercoledi 31 gennaio

A sinistra: Charles Elachi (a sinistra), che ha lavorato per 30 anni al Jet Propulsion Laboratory, è diventato il nuovo direttore del centro suentrando al posto di Edward Stone (a destra). Cortesia NASA/JPL.

Un nuovo direttore per il JPL

Con una mossa che indica cambiamento per il famoso Jet Propulsion Laboratory, Charles Elachi è stato chiamato a sostituire Edward Stone cpme direttore del centro. Noto in tutto il modno per il suo coivolgimento nell'esplorazione planetaria, il centro di Pasadena, in California, è condotto dal Caltech per la NASA. Il presidente del Caltech, David Baltimore, che ha dato oggi l'annuncio, ha spiegato che Elachi "conosce il JPL più di chiunque altro".

Il nuovo direttore ha trascorso tutti i 30 anni della sua carriera al JPL, arrivando a guidare lo Space and Earth Sciences Directorate passando dalle file scientifiche. "In questo nuovo lavoro, Charles Elachi porta il suo formidabile talento sia come scienziato che come leader" ha dichiarato Daniel Goldin, l'amministratore delegato della NASA. Tra gli altri incarichi, ha condotto lo sviluppo di dozzine di esperimenti scientifici spaziali tra cui le macchine da ripresa radar trasportate in orbita dallo Space Shuttle.

Stone ha guidato il JPL dal 1991 ed ora tornerà ad insegnare ed a fare il ricercatore al Caltech. Nonostante il suo ritiro dal JPL fosse atteso (ora ha 65 anni), il cambio di leadership avviene in un momento difficile per il laboratorio. Negli ultimi anni ha subito la perdita di tre sonde ad alto profilo: il Mars Observer nel 1993, il Mars Climate Orbiter ed il Mars Polar Lander nel 1999. "Il JPL non ha realmente bisogno di cambiamenti" assicura Wesley T. Huntress, ex direttore della NASA per le scienze spaziali "L'era di singole e costose sonde spaziali si è conclusa con la Cassini a metà degli anni '90 e l'approccio attuale richiede piuttosto veloci cambiamenti di rotta e l'adattamento rapido dalle lezioni apprese"

Quindi, laddove il predecessore applicava uno stile di management volto alla costruzione del consenso, ci si aspetta che Elachi, dell'età di 53 anni, applichi un approccio molto più diretto. Le relazioni tra Elachi ed Edward J. Weiler, che ha sostituito Huntress al quartier generale della NASA, costituiscono una solida base di partenza ma, come alcuni osservatori fanno osservare, la sfida più grande di Elachi sarà quella di preservare il ruolo dominante del JPL nella costruzione e nel management delle sonde interplanetarie della NASA. Questa pressione arriva dalle sonde costruite all'esterno, come la NEAR-Shoemaker, una missione a basso costo concepita e sviluppata dall'Applied Physics Laboratory della Johns Hopkins University. "Elachi ha un feeling viscerale per l'esplorazione planetaria", ha dichiarato Huntress del suo collega del JPL. "Ha un eccellente istinto per le tecnologie ed inoltre è uno che viene dall'interno e quindi ha fatto il pieno di esperienza al JPL".

— J. Kelly Beatty —

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Venerdi 26 gennaio

A sinistra: La Nube di Oort si estende a migliaia di unità astronomiche dal Sole. Studi recenti indicano che questa sfera di corpi ghiacciati potrebbe essere più sottile di quanto previsto. Disegno di Sky & Telescope.

La nube dei sopravissuti

Quando nel sistema solare primordiale venne il momento dei planetesimali, sembra chiaro che gli scontri fossero più frequenti del previsto. Secondo i nuovi calcoli eseguiti da S. Alan Stern (Southwest Research Institute) e Paul R. Weissman (Jet Propulsion Laboratory), dopo la formazione dei pianeti giganti la maggior parte degli oggetti rimasti nel sistema solare caddero in un'oblio fatto di collisioni. Questa nuova visione delle prime fasi della formazione del sistema solare potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui gli astronomi hanno immaginato la formazione e la composizione della Nube di Oort, la lontana riserva di comete popolata da corpi ghiacciati emigrati dalla regione dei pianeti esterni dopo un incontro ravvicinato con Giove ed i suoi simili.

Per i modelli precedenti, l'origine della Nube di Oort era dovuta solo all'interazione gravitazionale tra i pianeti esterni, gli oggetti ghiacciati che incontrarono e le masse esterne come le nubi molecolari giganti. Questi calcoli hanno dimostrato che un numero infinito di piccoli oggetti furono perturbati dalle loro orbite e spinti versi l'esterno e che solo una piccola frazione finì in una nube vagamente sferica a più di 10.000 unità astronomiche (1,5 milioni di miliardi di chilometri) di distanza. Come ha spiegato Stern la settimana scorsa all'Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, durante la formazione dei pianeti il sistema solare esterno abbondava così tanto di questi oggetti che nessuno avrebbe potuto allontanarsi senza scontrarsi con qualcun altro. Le collisioni furono comuni, ha detto, e polverizzarono molti planetesimali erodendo quelli più grandi.

Solo dopo che la regione dei pianeti esterni ripulì se stessa dai detriti i corpi sopravissuti poterono fuggire verso la Nube di Oort e, di conseguenza, quest'ultima contiene molta meno materia di quanto si pensasse. Secondo Stern e Weissman, la nube cometaria contiene una massa pari a poche masse terrestri, una frazione delle 10-40 masse terrestri stimate in precedenza.

— David Tytell and J. Kelly Beatty —

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Venerdi 26 gennaio

A sinistra: La sonda Imager for Magnetopause to Aurora Global Exploration (IMAGE) ha realizzato questa immagine nell'ultravioletto, visibile in falsi colori, del guscio di plasma che l'undici agosto 2000 circondava la Terra. La ripresa è dall'alto del Polo Nord terrestre con il Sole, non visibile, in alto a destra. Il debole cerchio al centro è la luminescenza dell'aurora. Cortesia NASA ed IMAGE science team. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

La magnetosfera terrestre fotografata dall'IMAGE

Le osservazioni delle sonde hanno mostrato agli scienziati come appare la magnetosfera terrestre, che altrimenti sarebbe invisibile. Nel numero di oggi della rivista Science, James L. Burch (Southwest Research Institute) ed 11 colleghi hanno presentato l'immagine del plasma che circonda il nostro pianeta. La sonda della NASA Imager for Magnetopause to Aurora Global Exploration (IMAGE) ha seguito i cambiamenti nel flusso di gas ionizzati al di sopra dell'atmosfera terrestre e, per la prima volta, è riuscita a darcene una visione globale a tre lunghezze d'onda nell'ultravioletto.

I ricercatori sono riusciti a confermare l'esistenza di una coda puntata verso il Sole, prevista teoricamente ma mai osservata prima. E' un artefatto del flusso di gas elettrificati, dal comportamento simile a quello di un fluido, che vengono spinti dal vento solare. Accanto a questa risacca magnetosferica, le immagini mostrano anche regioni con poco plasma, denominate trogoli troughs, cui Burch e colleghi non sono riusciti a dare una spiegazione.

Per ulteriori informazioni, consultare il comunicato stampa online.

— Stuart J. Goldman —

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Lunedi 22 gennaio

A sinistra: In questa immagine ripresa dalla sonda Cassini vediamo Himalia, la luna esterna di Giove più grande. L'indicazione che ci arriva è che Himalia ha una forma più irregolare che sferica. Cortesia NASA/JPL/University of Arizona. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

La Cassini osserva Himalia

Lanciata il 15 ottobre 1997, la sonda Cassini al momento è in viaggio verso Saturno. La navicella ha compiuto un lungo viaggio, transitando vicino a Giove il 30 dicembre per sfruttarne la spinta gravitazionale. Nel fare questo, ha ripreso alcune tra le più belle immagini mai viste del sistema gioviano. Un esempio è quella di Himalia, il più grande dei satelliti esterni. Scoperto nel 1904, Himalia ha una magnitudine di 14,8 ed un diametro di 170 ± 20 chilometri. Ripresa il 19 dicembre, l'immagine evidenzia che la luna non è sferica ma di forma irregolare, un'indicazione del fatto che potrebbe essere un asteroide catturato o un oggetto di tipo cometario.

Gli scienziati sono stati felici di ottenere quest'immagine. Il 19 dicembre infatti, una delle ruote di reazione che aiutano la stabilizzazione della Cassini ha funzionato male. Per un breve periodo, le osservazioni scientifiche sono continuate mentre la sonda è stata tenuta ferma dai motori di bordo. Questa ripresa è stata fatta proprio in quel periodo. Gli stabilizzatori avrebbero sprecato troppo carburante e così i controllori di volo hanno fermato lo studio di Giove sino a quando non sono stati sistemati gli stabilizzatori. Si ritiene che il problema sia stato causato dalla mancata lubrificazione nel sistema della ruota di reazione. Il rimedio è stato semplicemente quello di farla ruotare velocemente e ridistribuire così il lubrificante. Le operazioni sono rientrate nella normalità due giorni più tardi.

— David Tytell —

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Venerdi 19 gennaio

A sinistra: Venere ha un'atmosfera calda e densa composta da biossido di carbonio e sconvolta da nubi di acido solforico. In questa immagine nell'ultravioletto, ripresa dall'Hubble Space Telescope il 24 gennaio 1995, le nubi del lato in cui è giorno presentano vaghi segni distintivi ma non ci sono tracce della misteriosa "luce cinerea" che, per 300 anni gli osservatori da terra hanno sporadicamente riferito di aver visto. Cortesia Larry Esposito (University of Colorado) e NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Vacilla l'ipotesi della "luce cinerea"

Negli ultimi 300 anni, gli osservatori occasionalmente hanno riferito di aver visto una debole luminosità nel lato notturno di Venere. Il fenomeno però, denominato " "luce cinerea", è elusivo e molti astronomi professionisti, come gli astrofili, hanno dei dubbi sulla sua esistenza. Due recenti risultati hanno reso ancora più difficile da accettare l'idea della luce cinerea.

Nel novembre 1999, Tom G. Slanger (SRI International) e colleghi hanno sondato l'atmosfera superiore di Venere con il telescopio Keck di 10 metri ed uno spettrometro ad alta risoluzione, rilevando una debole luminescenza verde nel lato notturno alla frequenza di 557,7 nanometri, l'emissione dell'ossigeno atomico nell'alta atmosfera. Nel numero odierno di Science, il team di Slanger spiega che la luce ultravioletta scinde il biossido di carbonio (CO2) in monossido di carbonio (CO) e ossigeno atomico (O) nel lato del pianeta in cui è giorno. Veloci venti trasportano questi atomi di ossigeno nel lato notturno, dove si ricombinano in O2 emettendo luce verde.

L'emissione è molto debole, ha detto Slanger, ed è la luminescenza del lato notturno delle molecole di O2 rilevata dal team con il Keck. Con un'intensità di circa 5.000 rayleighs, ha spiegato Slanger, la luminosità potrebbe essere distinguibile da un astronauta che si trovasse sopra il lato al buio del pianeta ma con un telescopio è quasi indistinguibile, specialmente da quando l'emisfero notturno del pianeta è ben visibile solo quando Venere tramonta oppure è molto basso.

Anche l'altra possibile causa della luce cinerea, dei veloci fulmini, ha ricevuto un brutto colpo. Nel corso degli anni '70, le sonde russe ed americane rilevarono emissioni radio a bassa frequenza che fecero pensare che la densa atmosfera di Venere fosse percorsa costantemente da potenti scariche elettriche. Sentendo questo risultato, gli osservatori immaginarono che se i fulmini si fossero arrampicati sufficientemente, la loro luce avrebbe potuto comparire come una luminescenza nel lato notturno del pianeta.

Questa possibilità non fu mai confermata ed in un articolo apparso su Nature del 18 gennaio, Donald A. Gurnett (University of Iowa) e sette colleghi hanno gettato diversi dubbi sulla sua attendibilità. Il team di Gurnett ha esaminato i dati della sonda Cassini, transitata nei resi del pianeta nell'aprile 1998 e nel giugno 1999. Se ci fossero stati dei fulmini, la sonda avrebbe rilevato i disturbi alle alte frequenze dovuti alle scariche, gli stessi che ascoltiamo su una radio ad onde medie durante un temporale. Nonostante la Cassini abbia rilevato facilmente le tracce dei fulmini terrestri durante l'ultimo passaggio ravvicinato al nostro pianeta, niente di simile è stato riscontrato per Venere. "Se ci fossero i fulmini nell'atmosfera di Venere", ha concluso il team, "o sono estremamente rari o sono molto diversi da quelli terrestri".

— Edwin L. Aguirre —

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