Astrofotografia e CCD: la fotografia tradizionale

Un pò di tecnica


Teoria...

L'emulsione fotosensibile è una sospensione di minuti cristalli di alogenuri d'argento, sali assai sensibili all'effetto della luce, dispersi in una matrice di gelatina fissata ad un supporto solido; fra questi alogenuri quello che entra in massima parte nel processo di fotoconversione è il bromuro, ottenuto facendo sciogliere la gelatina in una soluzione di bromuro di potassio addizionata con ioduro di potassio. A tale soluzione si aggiunge poi nitrato di argento, ottenendo così bromuro di argento e, in piccola quantità, ioduro di argento. Questo, una volta solidificato e tagliato in piccolissime scaglie, costituisce l'emulsione negativa. L'emulsione è stesa supporto in uno o più strati sottili e otticamente piani. Il materiale del supporto è spesso costituito di triacetato di cellulosa incombustibile, che ha sostituito il vecchio nitrato di cellulosa al contrario molto infiammabile. Attualmente, oltre alle classiche lastre in vetro, si utilizza anche una base in poliestere, per raggiungere la massima resistenza alla deformazione laddove la planeità della pellicola è un fattore critico nella riuscita della ripresa (in astrometria, per esempio, dove è fondamentale poter ottenere delle riprese di campi stellari necessarie alla misurazione accurata delle distanze o della posizione di astri con il metodo della parallasse visuale).

L'interazione fondamentale su cui poggia la fotografia classica è la riduzione chimica in argento metallico dell'alogenuro d'argento colpito dalla luce. Con l'esposizione, la luce produce un'immagine latente nell'emulsione: le zone modificate dall'esposizione ad una grande quantità di luce, una volta sottoposti all'azione dello sviluppo disporranno di molto argento ridotto, ossia produrranno una regione caratterizzata da un'elevata densità. Viceversa, le zone colpite da poca luce avranno una minor quantità di argento, e saranno dotate di una minor densità. Ogni emulsione è dotata di una certa sensibiltà alla luce, stabilita al momento della fabbricazione. La sensibilità è una variabile dipendente da più fattori insieme; in primo luogo, comunque, dipende dalla grandezza dei cristalli componenti l'emulsione: maggiori sono le dimensioni dei cristalli, maggiore sarà la sensibilità dell emulsione prodotta; ciò, però, a scapito della risoluzione lineare ottenibile, che è inversamente proporzionale alla grandezza dei cristalli; la tecnologia attuale si basa ancora sulle proprietà del bromuro di argento, e permette di ottenere elevatissimi gradi di sofisticazione nella struttura di queste emulsioni fotochimiche, in grado di raggiungere risoluzioni lineari, oltreché cromatiche, davvero elevate.

Per le emulsioni bianco/nero, un altra proprietà fondamentale è la sensibilità spettrale: pellicole differenti possono reagire differentemente ai diversi colori dello spettro. Le emulsioni più antiche erano dotate di una sensibilità ristretta alla sola porzione blu dello spettro (questo è, curiosamente, uno dei motivi per cui nella maggior parte delle fotografie di paesaggio del secolo scorso il cielo appare privo di dettagli, del tutto sovraesposto). Modificando la composizione delle emulsioni, si arrivò ad estendere la sensibilità a tutti i colori dello spettro, con la sola eccezione del rosso (sensibilizzazione ortocromatica), e poi all'intero spettro visibile (sensibilizzazione pancromatica). L'intervallo di sensibilità spettrale di un'emulsione è importante per l'applicazione a cui potrà essere destinata: una sensibilità ridotta nella porzione del rosso la renderà del tutto inefficiente nella rivelazione dei dettagli di una nebulosa ad emissione nella riga H-alfa dell'idrogeno ionizzato (rosso), che verranno registrati molto più scuri di quanto ci si aspetterebbe, mentre potrà essere adeguata per la ripresa di galassie o nebulose a riflessione.

Rappresentazione schematica della porzione dello spettro elettromagnetico centrata sulla regione del visibile. Nessuna emulsione fotografica è in grado di coprire l'intero intervallo spettrale del visibile, ma presenta una più spiccata sensibilità verso l'estremo rosso oppure verso l'estremo blu; nel primo caso l'emulsione sarà valida nella registrazione di nebulose ionizzate emittenti nella regione H-ALFA dello spettro (rosso), mentre nel secondo caso sarà valida per cogliere i dettagli di oggetti freddi come le grandi nebulose a riflessione che circondano le stelle in formazione.
Nell'applicazione pratica amatoriale, le differenze in sensibilità spettrale sono fra le principali cause di insuccesso nella registrazione dei tanto agognati dettagli di una bella nebulosa, ma costituiscono anche una delle sfide più divertenti, alla caccia della miglior emulsione in grado di sopportare le filtrature o i trattamenti pre- e post-sviluppo più strani, in una sperimentazione che non finisce praticamente mai, alimentata anche dai progressi tecnologici che fanno giungere sul mercato emulsioni sempre nuove e migliori.

... e pratica

È il caso delle emulsioni bianco/nero Kodak della serie Technical Pan 2415, molto nota nel campo dell'astrofotografia professionale ed amatoriale per il notevolissimo potere risolvente (fino a 320 linee/mm.) raggiungibile con un adeguato sviluppo energetico, e l'elevato contrasto, che la rende ideale per la registrazione dei tenui dettagli delle nebulose galattiche, delle evanescenti spire di lontane galassie o delle sottili figure della supeficie dei Pianeti maggiori. Assai versatile, consente anche un buon recupero della gamma dinamica mediante l'utilizzo di un adeguato sviluppo compensatore a bassa energia, che riducendo il contrasto permette di estendere la scala dei grigi con un buon guadagno in leggibilità dei dettagli registrati nelle basse e nelle alte luci, ai limiti della sotto- e sovraesposizione.
La sensibilità spettrale compresa fra i 400 e i 700 nanometri di lunghezza d'onda è molto buona, potendo così assicurare la ripresa dei dettagli delle nebulose a riflessione ed emissione; la spiccata sensibilità nel rosso (dai 580 nanometri) la rende uno strumento ideale nelle riprese di soggetti emittenti nella regione dello spettro centrata sulla riga H-alfa dell'idrogeno ionizzato (rosso), soprattuttto se utilizzata in unione con filtri a banda passante piuttosto stretta (tipico è l'utilizzo della TP2415 con filtri selettivi H-alfa o Wratten-25 per la ripresa delle zone centrali della Via Lattea o delle grandi nebulose ionizzate). In questi casi si ottiene un impressionante aumento del contrasto con il fondo cielo, la cui debole luminescenza verde, causata dall'emissione dell'ossigeno atmosferico d'alta quota ionizzato dai raggi cosmici, viene completamente tagliata fuori dal filtro selettivo. Come risultato si ha un cielo completamente nero su cui spiccano intensamente le strutture interstellari più deboli, enfatizzabili ancor di più con opportune manovre di mascheratura da effettuare in un secondo tempo in camera oscura, in sede di stampa.

Uno dei maggiori problemi che ha incontrato da sempre la fotografia con emulsioni chimiche (e con cui deve combattere continuamente l'astrofotografo evoluto) è il cosiddetto difetto di reciprocità. Nel secolo scorso, Roscoe e Bunsen esposero la loro legge della reciprocità, senza fare alcun riferimento alla fotografia, affermando che in una reazione fotochimica il prodotto che ne deriva dipende direttamente dall'energia totale impiegata. Fu il grande fisico Karl Shwarzschild, in un saggio intitolato "Le regole sensitometriche e la loro applicazione in astronomia", a notare che la legge della reciprocità fra input energetico (la luce incidente) e output chimico (la riduzione dell'alogenuro d'argento) perdeva di validità quando veniva applicata alla fotografia astronomica, in modo tale da non poter più contare sulla sensibilità di un'emulsione mantenuta costante per tutta la durata della ripresa. Tale difetto di reciprocità consiste appunto nella incapacità dell'emulsione di rispondere linearmente all'illuminamento protratto per periodi molto brevi (dell'ordine dei millesimi di secondo) o molto lunghi (dell'ordine delle ore, è il caso dell'astrofotografia): in questi casi l'annerimento della pellicola non è più proporzionale alla quantità di luce ricevuta, ma si riduce drasticamente, vanificando il prolungamento dell'esposizione oltre un certo valore di tempo, detto limite della reciprocità. In definitiva, ciò si traduce, durante l'esposizione prolungata, in un calo della rapidità nominale che porta all'inevitabile sottoesposizione. A ciò si rimedia prolungando la posa molto oltre il limite calcolato in base all'equazione della legge di reciprocità: di solito si può arrivare a 30 minuti di esposizione per un soggetto che ne richiederebbe solo 5 in condizioni teoriche di perfetta linearità input-output !

Per ovviare al problema esistono vari metodi che, riducendo il difetto di reciprocità, rendono molto più lineare la risposta dell'emulsione durante la posa: sono i cosiddetti procedimenti di ipersensibilizzazione. Analizziamone brevemente alcuni tra i più noti, tralasciando volutamente tutte le tecniche di amplificazione fotografica applicabili nella fase successiva alla ripresa in camera oscura, in grado peraltro di fornire risultati eccellenti, e limitandoci agli interventi operabili direttamente sull'emulsione anche da un astrofilo con un minimo di organizzazione.

IPERSENSIBILIZZAZIONE TRAMITE VELO: nota anche con il nome di pre-flash, consiste nel far aumentare artificialmente il velo di fondo dell'emulsione ancora vergine per mezzo dell'esposizione ad una sorgente luminosa estremamente potente per un periodo brevissimo (dell'ordine del decimillesimo di secondo). Nella pratica, si utilizza la luce generata da un lampeggiatore elettronico. Lo scopo di questa tecnica è quello di generare dei nuclei di sviluppo distribuiti con uniformità su tutta la superficie dell'emulsione. Il pre-flash non è molto diffuso fra i dilettanti.

IPERSENSIBILIZZAZIONE TRAMITE ARROSTIMENTO : una tecnica che permette di ridurre della metà il tempo di esposizione necessario; il metodo è però abbastanza laborioso dato che è necessario disporre di un contenitore attrezzato per la protezione delle emulsioni e di un termostato abbastanza preciso da poter rendere il metodo controllabile e riproducibile. Il miglioramento delle prestazioni ottenibili con questa tecnica di ipersensibilizzazione è dovuto anche al fatto che non viene incrementata eccessivamente la granulosità dell'emulsione sottoposta al trattamento; per contro è necessario tenere sotto controllo il rischio di introdurre un velo eccessivo con un trattamente troppo prolungato o a temperatura troppo alta.

IPERSENSIBILIZZAZIONE TRAMITE FORMING-GAS : è sicuramente il metodo più diffuso in assoluto fra gli astrofotografi dilettanti: la famosa TP2415 hypered è spesso l'emulsione vincente per riprese ai limiti strumentali. Il forming-gas è una miscela di azoto e idrogeno nelle rispettive percentuali di 90% e 10%, allo scopo di diminuire il rischio di esplosione durante la manipolazione delle strumentazioni di ipersensibilizzazione. L'emulsione viene immagazzinata in un apposito contenitore stagno in cui viene fatto il vuoto e successivamente riempito con la miscela a pressione ambientale; l'emulsione rimane a contatto con il gas per un periodo variabile da 24 a 36 ore, calcolabile in base a prove sperimentali, alla temperatura di 50-60°C, anch'essa modofocabile per adattarla alle risposte delle diverse emulsioni. Con film come la Technical Pan, l'incremento delle prestazioni è drammatico, potendo arrivare ad abbattere quasi completamente il difetto di reciprocità. La pellicola è pronta per l'uso appena terminato il trattamento, e rimane utilizzabile per circa un mese se conservata sigillata a temperature di almeno - 20°C. L'apparecchiatura necessaria per questo trattamento, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è abbastanza diffusa fra gli astrofili, reperibile in commercio anche in Italia tramite gli importatori specializzati.

IPERSENSIBILIZZAZIONE TRAMITE RAFFREDDAMENTO : è una tecnica abbastanza diffusa anche fra gli astrofili; consiste nel portare a basse temperature (dell'ordine dei -70°C) l'emulsione durante la posa, per mezzo di normale ghiaccio secco (anidride carbonica congelata); per questo esistono in commercio speciali fotocamere dotate di un apposito contenitore, mentre per la manipolazione di azoto o elio liquidi, necessari per raggiungere temperature molto più basse (-270°C circa) sono necessarie apparecchiature decisamente non alla portata di un astrofilo. La tecnica offre però delle difficoltà pratiche abbastanza elevate: innanzitutto è necessario che la camera contenente la pellicola sia sotto vuoto oppure riempita con gas inerte (azoto o argon) allo scopo di impedire che la forte escursione termica fra l'interno e l'esterno della camera stessa provochi la formazione di brina. Inoltre si può correre il rischio di rovinare l'emulsione se la si sottopone ad un raffreddamento troppo rapido (effetto di retinatura).

Al giorno d'oggi, le case produttrici stanno spingendo nella direzione dell'alta risoluzione unita ad una più elevata sensibilità, due caratteristiche che è spesso difficile accomunare in una stessa emulsione. L'adozione di nuovi metodi di accrescimento dei cristalli componenti l'emulsione fotosensibile (famosa a tal proposito è la tecnologia Tabular Grain della Kodak) sta effettivamente risolvendo questo problema. Il progresso tecnologico ha investito anche le emulsioni a colori, sia negative che diapositive, permettendo risultati un tempo insospettabili; anche per il corretto utilizzo di queste emulsioni sono necessari tutti gli accorgimenti descritti per il controllo del difetto di reciprocità, ma il grande vantaggio che deriva dall'utilizzo del colore nella fotografia astronomica è sia di tipo estetico, dato che è possibile registrare i colori spettacolari di stelle, nebulose e galassie, sia di tipo scientifico.

Nell'applicazione pratica dei lavori di astrofotografia, il trattamento delle emulsioni fotografiche non rimane praticamente mai l'unico intervento operato al fine di migliorare la qualità della stampa finale; ad esso si aggiunge spesso un notevole lavoro di sperimentazione in camera oscura, con l'adozione di particolari tecniche di filtratura e mascheratura a volte anche molto sofisticate (è il caso dell'unsharp masking), oppure di intensificazione del segnale impresso nei soli strati superficiali dell'emulsione (amplificazione fotografica), nel tentativo di ricavare il massimo dalla registrazione fotografica. La descrizione delle varie tecniche di camera oscura esula dai contenuti di questo scritto, ma non va dimenticato che, spesso, i risultati mostrati come esempio di astrofotografia classica amatoriale non sono la riproduzione diretta di quanto impresso sul negativo al momento dell'esposizione, ma il risultato di un lavoro attento e preciso in camera oscura.


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