Il Notiziario di
Sky & Telescope

Edizione italiana a cura di Mario Farina

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La rivista indispensabile di astronomia

Mercoledi 15 novembre

A sinistra: Mentre effettuava questa esposizione di 9 minuti, l'italiano Lorenzo Lovato ha fotografato quattro luminose Leonidi mentre sfrecciavano nell'Idra, nel Cane Minore ed in Orione nel corso del passaggio del 1998. Il radiante si trova nella criniera del Leone, sulla sinistra. Per realizzare questa ripresa è stato utilizzato un grandangolo da 16 mm. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Sciame delle Leonidi:
gli astronomi annunciano risultati e previsioni

Lo sciame annuale delle Leonidi raggiungerà il picco in questo fine settimana, ma gli astronomi non sono certi dell'intensità che avrà quest'anno il fenomeno. Ogni 33 anni le Leonidi possono potenzialmente diventare una "tempesta" meteorica, poiché la Terra incontra una concentrazione di particelle della cometa progenitrice 55P/Tempel-Tuttle. Anche se i due anni passati non hanno prodotto alcuna "pioggia meteorica", come in passato, molti osservatori sono rimasti comunque impressionati dai molti avvistamenti del 1998 e del 1999 che hanno portato, per brevi periodi, a punte di una meteora al secondo.

L'anno scorso, gli astronomi organizzarono lo studio dello sciame da terra e dal cielo. Il programma più ambizioso è stata la Leonid Multi-Instrument Aircraft Campaign, con il quale l'U.S. Air Force e la NASA hanno fatto volare due aerei sull'Europa per seguire le meteore. Alcuni risultati sono stati pubblicati questa settimana sulla rivista Earth, Moon and Planets. Una scoperta fondamentale, spiega il ricercatore Peter Jenniskens (NASA/Ames Research Center), è che le molecole organiche nelle particelle dello sciame delle Leonidi sembravano non essersi bruciate. "Potrebbero essersi raffreddate rapidamente prima di andare in pezzi" ha continuato Jenniskens. Si è anche scoperto che le meteore non sono calde come si pensava. La parte più luminosa di una meteora non è la testa bianca ma la zona calda che le sta dietro che diventa una fornace per la trasformazione delle molecole organiche in altro materiale. Ancora, quando un meteoriode gira su se stesso, sparge i suoi frammenti ovunque, alterando l'atmosfera molto più di quanto si pensasse. Per altre informazioni su queste scoperte consultate il comunicato stampa online.

E come vedremo le Leondi nel 2000? Potrebbe ripetersi la fiumana dicono gli studiosi. Questa volta il luogo ideale potrebbe essere il Nord America, secondo C. Gökel e Rüdiger Jehn (European Space Agency). Su Monthly Notices della Royal Astronomical Society del primo settembre, giungono alla conclusione che il 17 novembre, in prossimità delle 7:53 Tempo Universale, potrebbe verificarsi uno notevole. Un altro ricercatore, Ignacio Ferrìn, ha già previsto una tempesta un'ora e mezza più tardi, intorno alle 9:24 TU.

Robert McNaught e David Asher invece, ritengono che questa parte dello sciame (dovuto a particelle rilasciate dalla cometa nel 1932) sarà debole. Il loro favore va alla mattina del 18 verso le 3:44 TU (l'ideale per l'Europa occidentale) ed ancora alle 7:51 TU (ideale per il Nord America orientale). Hanno anche previsto che i picchi del 18 non saranno impressionanti, con poche dozzine di meteore per ora.

Se Gökel e Jehn hanno ragione, il 17 novembre lo sciame avrà un'intensità pari a metà di quella osservata lo scorso anno dall'Europa. Sfortunatamente, la Luna all'ultimo quarto sarà particolarmente fastidiosa.

Per maggiori informazioni sullo sciame delle Leonidi leggete gli articoli al link di Sky & Telescope La pagina delle meteore. Inviate le vostre immagini e le osservazioni a observers@skypub.com, saranno le benvenute.


Giovedi 9 novembre

A sinistra: L'immagine formata da tre riprese dell'Hubble Space Telescope effettuate nel 1996 e nel 1999 mostrano chiaramente il moto della stella di neutroni RX J185635-3754 rispetto alle stelle sullo sfondo. Il campo inquadrato misura 8,8 secondi d'arco o, alla distanza cui si trova la stella che è di 200 anni luce, 0,1 a. l. Cortesia NASA ed F. M. Walter. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Ecco il volo di una stella di neutroni

A soli 200 anni luce dal Sole un solitario relitto stellare sta viaggiando velocemente nello spazio e l'Hubble Space Telescope lo sta seguendo da diversi anni. La stella di neutroni di 26° magnitudine denominata RX J185635-3754 è l'oggetto di questo tipo più vicino alla Terra che si conosca. Questo nucleo di stella massiva residuo di un'esplosione di supernova si muove nella costellazione della Corona Australe a più di 100 km al secondo. Una serie di immagini che dimostrano il moto della stella sulle stelle di fondo è stata rilasciata oggi dallo Space Telescope Science Institute.

Gli astronomi guardano al futuro perché l'osservazione di questo oggetto servirà come banco di prova per la comprensione delle stelle di neutroni. Questo campione è particolarmente apprezzato per via della sua natura solitaria, non compare infatti una stella compagna che interferisce con il suo movimento o il raffreddamento. E' comunque probabile che in passato avesse una compagna. Gli astronomi hanno percorso a ritroso il moto della stella e ritengono che una supernova esplose circa 1 milione di anni fa nello Scorpione e la stella progenitrice potrebbe essere stata compagna di Zeta Ophiuchi.

Per maggiori informazioni consultate il comunicato stampa.


Giovedi 9 novembre

A sinistra: La lente gravitazionale del quasar RXJ 0911.4+551 ha quattro componenti, come si vede in questa immagine del Chandra X-ray Observatory. Ognuno è un miraggio del quasar, che si trova lontano e dietro ad una galassia lungo la nostra linea di vista. Il grafico nella parte inferiore mostra le curve di luce di due componenti durante un brillamento del quasar. Quello a sinistra, della componente A2, presenta un incremento tipico nell'ordine dei 30 minuti. Secondo i ricercatori, A1 dovrebbe aver mostrato lo stesso brillamento 0,8 giorni prima, poiché questa linea di vista del quasar è più breve di 0,8 giorni. Cortesia George Chartas e Mashall W. Bautz. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

I miraggi di un quasar potrebbero
fornire indizi sul tasso di espansione dell'universo

La luce curvata dalla gravità proveniente da un lontano quasar potrebbe diventare uno strumento chiave per la determinazione della rapidità dell'espansione dell'universo. Nella lunga ricerca nel tentativo di misurare questa quantità con precisione, gli astronomi hanno fatto uso di diversi metodi per determinare le distanze di oggetti lontanissimi. Questi metodi, peraltro, sono intrisi di incertezze. Ieri, al meeting della High Energy Astrophysics Division dell'American Astronomical Society in corso ad Honolulu, Hawaii, George Chartas (Penn State) e Mashall W. Bautz (MIT) hanno descritto quello che potrebbe essere il sistema migliore per valutare le distanze cosmiche.

Gli studiosi hanno presentato le osservazioni di un quasar denominato RXJ 0911.4+0551 effettuate dal Chandra X-ray Observatory. Il quasar appare in quattro parti perché una galassia posta tra noi e l'oggetto ne curva gravitazionalmete la luce come fosse una lente, producendo quattro miraggi. Ognuno rappresenta il viaggio, leggermente diverso, che la luce del quasar compie intorno alla galassia. I percorsi hanno lunghezza diversa, quindi la luce che ha lasciato il quasar nel medesimo istante ci giunge in quattro tempi diversi. Gli astronomi hanno spiegato che misurando i ritardi nella ricezione del segnale luminoso e conoscendo la geometria dell'intero sistema, è possibile determinare la distanza della galassia che funge da lente. Per poter arrivare a questo risultato, le componenti della luce del quasar devono essere monitorate per un certo periodo.

I quasar variano di luminosità, e nella radiazione X questo può avvenire in maniera significativa, nell'arco di poche ore. Si è quindi pensato di rilevare quando avvengono gli stessi cambiamenti di luminosità nelle quattro immagini. "Con un'attenta pianificazione, l'osservazione del quasar RXJ 0911.4+0551 da parte del Chandra potrebbe portare alla misura della costante di Hubble, la rapidità dell'espansione dell'universo, in meno di un giorno" ha spiegato Chartas. Lui e Bautz hanno identificato nove altri sistemi di lenti che potrebbero essere seguiti. "Una lunga osservazione di cisascuna soergente con un telescopio per raggi X potrebbe fornire dati sufficienti per ottenere the la costante di Hubble in un batter d'occhio"

L'idea però, potrebbe risultare eccessivamente ottimistica. Tentativi precedenti di utilizzare questo metodo per misurare la costante di Hubble sono affondati sull'imprecisione con cui si conosce la massa della galassia che fa da lente.

Per maggiori informazioni, consultate il comunicato stampa online.


Martedi 7 novembre

A sinistra: L'immagine nella radiazione X del quasar 3C 273 nella Vergine ripresa dal Chandra X-ray Observatory rivela una parte del misterioso getto (al centro) mai osservato prima. Cortesia NASA/CXC/Herman Marshall et altri. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Primo piano del getto di un quasar

La vista acuta Chandra X-ray Observatory ha osservato il nucleo di un quasar, rivelando un potente flusso di materia calda mai osservato in precedenza. Herman Marshall (MIT) e colleghi hanno puntato il telescopio orbitante al quasar di 13° magnitudine 3C 273 per esaminare il getto emergente dal nucleo. Precedenti osservazioni effettuate con altri telescopi avevano rilevato il flusso come una serie di noduli, nei quali gas in rapido movimento si scontravano con materia più lenta formando grappoli di ammassi. Il primo piano del Chandra presenta un flusso uniforme alla base del getto. "Anziché esserci una fortissima emissione X", ha spiegato Marshall "Chandra ci ha permesso di rilevare un debole ma definito flusso di energia". Gli astronomi presumono che il flusso sia dovuto alla caduta di materia in un buco nero massivo al centro del quasar. I gas si surriscaldano mentre cadono a spirale nel buco nero ed alcuni vengono fatti schizzare via dall'intenso campo magnetico. I dati relativi alla radiazione X dovrebbero fornire degli indizi su come si forma il getto.

I risultati sono stati inviati ad Astrophysical Journal Letters. Per maggiori dettagli leggete il comunicato stampa.


Sabato 4 novembre

Rischio asteroidi: allarme rientrato?

Un giorno dopo l'annuncio dell'avvistamento dell'oggetto con una probabilità su 500 che nel 2030 colpisca la Terra, gli astronomi sono giunti alla conclusione che mancherà il nostro pianeta con un ampio margine. Denominato 2000 SG344, l'asteroide è molto debole, al momento è di magnitudine 24, e misura solo 30 metri per 70. E' stato il primo asteroide le cui probabilità di impatto sono state sufficientemente elevate da fargli raggiungere il valore 1 nella scala Torino del pericolo di impatti. In un'immagine del maggio 1999, precedente alla sua scoperta, nuovi calcoli eseguiti da un team di esperti di dinamica italiani ha dimostrato che l'oggetto non si avvicinerà a più di 5.200.000 km il 22 settembre 2030.

L'asteroide venne scoperto il 29 settembre da Robert J. Whiteley e David J. Tholen con il telescopio franco-canadese-hawaiano sul Mauna Kea. Tholen e Whiteley hanno ricercato sistematicamente asteroidi che intersecano l'orbita terrestre (Earth-crossers) prima dell'alba e dopo il tramonto in aree di cielo relativamente vicine al Sole. "E' stato subito chiaro che si trattava di un oggetto near-Earth" ha dichiarato Whiteley.

Non è chiaro comunque se si tratti realmente di un asteroide. La sua orbita è così simile a quella terrestre che Whiteley e Tholen potrebbero avere inavvertitamente scoperto un razzo in orbita intorno al Sole. Durante il programma Apollo, cinque stadi Saturn IV-B finirono in orbita intorno al Sole ed il 1971 vide anche il lancio delle sonde interplanetarie sovietiche Mars 2 e 3. "Personalmente ritengo si tratti di un relitto spaziale" ha dichiarato Marsden. Non portemo sapere altro sulla sua vera natura ancora per molto tempo. Ieri, Steven J. Ostro (JPL) ha mancato il contatto radar con 2000 SG344 con il radiotelescopio di Arecibo ed il prossimo avvicinamento alla Terra è previsto non prima del 2028.


Giovedi 2 novembre

A sinistra: Una veduta aerea del LIGO vicino ad Hanford, Washington, mostra la coppia di tunnel lunghi 2 km dell'installazione che si protendono verso il deserto Washington. Cortesia LIGO Hanford Observatory. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Il LIGO ottiene il primo collegamento

Nel corso dei prossimi anni, entreranno in funzione diversi rilevatori di onde gravitazionali, ciascuno dei quali spera di rilevare per primo i disturbi nel campo gravitazionale dell'universo. Una pietra miliare in questo senso è stata raggiunta recentemente al Laser Interferometer Gravitational-wave Observatory (LIGO) vicino Hanford, Washington, quando gli scienziati hanno effettuato il primo collegamento del rivelatore.

Questa procedura è simile alla prima luce di un nuovo telescopio con l'eccezione che la luce proviene da una fonte interna. Per il LIGO, il primo collegamento consiste nell'invio e nel ritorno simultaneo di una luce laser lungo una coppia di tunnel a riprova del delicato e preciso allineamento delle ottiche, un risultato necessario alla rilevazione delle onde gravitazionali. Prima che il LIGO diventi operativo sarà comunque necessario raggiungere ancora molti traguardi. Un secondo osservatorio a Livingstone, in Louisiana, dovrebbe effettuare questa stessa prova all'inizio del prossimo anno ed uno strumento LIGO più grande sarà pronto ad Hanford nel 2002. Solo allora la ricerca delle onde gravitazionali avrà inizio commence.

L'edizione di ottobre 2000 di Sky & Telescope contiene una serie di articoli relativi alla ricerca di onde gravitazionali mentre altre informazioni sul LIGO sono disponibili al sito Web www.ligo.caltech.edu/.


Mercoledi 1 novembre

A sinistra: L'Ammasso Alveare è osservabile ad occhio nudo come una macchia confusa di luce in prossimità del centro della costellazione del Cancro. Attualmente sorge ad est intorno alla mezzanotte. Cortesia Sven Kohle e Till Credner. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Una coppia di ammassi stellari in collisione?

Uno degli oggetti più belli della notte potrebbe nascondere un terribile segreto. L'Alveare (M44), noto anche come Presepe, è un ammasso aperto di diverse centinaia di stelle posto a 570 anni luce di distanza nella costellazione del Cancro. Secondo un team guidato da Karen Holland e Richard Jameson (Università di Leicester) l'ammasso, che ha un'età di 800 milioni di anni, sarebbe formato da due compagini stellari in fase di collisione.

Analizzando la luminosità nella radiazione X dei singoli membri dell'Alveare, i ricercatori hanno identificato una concentrazione di stelle più vecchie (che hanno emissioni più deboli). Queste miscele stellari dovrebbero aver disperso simili aggregazioni da tempo ed inoltre un'attento esame dell'interazione gravitazionale all'interno dell'ammasso ha rivelato che il sistema è instabile. Le stelle si stanno muovendo così velocemente che entro 10 milioni di anni l'ammasso si disintegrerà.

Secondo Jameson e la Holland, la spiegazione più ovvia di queste particolari proprietà è che l'Alveare sia formato da due ammassi stellari aperti in fase di collisione. I dettagli verranno pubblicati alla fine dell'anno su Monthly Notices della Royal Astronomical Society.


Mercoledi 1 novembre

A sinistra: In questa immagine colorata della regione marziana Syrtis Major (a sinistra), le aree prevalentemente blu indicano la presenza di abbondante olivina. Poiché questo minerale si erode facilmente, la sua ubiquità indica che Marte non è mai stato caldo ed umido. Una carta di riferimento (a destra) mostra le maggiori landforms in questa regione del pianeta. Cortesia R. Clark e T. Hoefen, USGS. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Marte: più secco e verdeggiante

A contrastare l'entusiasmo per la scoperta recente di tracce di possibili flussi d'acqua sui dirupi marziani ci sono nuove prove secondo le quali il pianeta rosso per miliardi di anni non avrebbe avuto un'atmosfera né calda né umida. Con i dati ottenuti dal Thermal Emission Spectrometer a bordo dell'orbiter Mars Global Surveyor della NASA, Roger N. Clark e Todd M. Hoefen (U.S. Geological Survey) hanno rilevato ovunque, sulla superficie marziana, la presenza di cristalli di olivina. Poiché l'erosione di questo silicato verdastro è veloce, la sua presenza sta a significare che il clima sul pianeta è stato per lungo tempo freddo e secco. Come ha chiarito Clark ad una riunione di scienziati planetari la settimana scorsa: "Se Marte fosse stato caldo ed umido, tutta questa olivina non ci dovrebbe essere".

Dopo aver realizzato una mappa spettrale del 75 per cento del territorio compreso entro 45 gradi di latitudine dall'equatore, Clark ed Hoefen hanno scoperto che in circa il 3 per cento della superficie, circa 2,5 milioni di chilometri quadrati, è segnalata nel vicino infrarosso e con varie intensità la presenza dell'olivina. La maggior parte delle esposizioni sono relative ad aree scure che, presumibilmente, sarebbero coperte da flussi basaltici (dove si trova comunemente l'olivina sulla Terra). Spesso, fa notare Clark, il minerale si trova in aree singole ed isolate di 6 per 3 chilometri che "Prima d'ora non avevamo mai potuto rilevare per l'insufficiente risoluzione" ha proseguito Clark.

I dati del TES sono riusciti a distinguere anche le variazioni nella composizione dell'olivina. Una zona ricca di ferro è stata rilevata su un pianoro di 2 km di altezza a cavallo della Nili Fossae, un doppio canale nella parte settentrionale di Syrtis Major. Anche se si sta tentando di arrivare alla conclusione che ci sia su Marte l'equivalente delle Green Mountains del Vermont, il colore dell'olivina potrebbe non essere così lampante ai possibili futuri astronauti. "Il colore dipende dalle dimensioni delle particelle" ha detto James F. Bell III (Cornell University). Per esempio, i grani di olivina piccoli potrebbero apparire del colore verdastro di alcune sabbie hawaiane e, a pochi chilometri di distanza, apparire neri.

In ogni caso, la rilevazione dell'olivina costringe gli scienziati a rivedere la storia di Marte. Grandi quantitativi d'acqua sarebbero fluiti sulla superficie di Marte molto tempo fa ma i dettagli di quando e come sia arrivata in superficie sono, al momento, motivo di dibattito. A dispetto dell'evidente presenza di canali aumenta il consenso tra i ricercatori che dicono che il pianeta non ha mai avuto un clima temperato persino quando scorreva l'acqua.

Clark ed Hoefen non sono i soli a proporre simili teorie. Al meeting della settimana scorsa Conway Leovy (University of Washington) ha ipotizzato che molte caratteristiche morfologiche marziane siano state prodotte piuttosto che dall'acqua, da forti venti. Secondo Leovy, anche il vulcanesimo potrebbe aver mimato gli effetti dell'erosione dell'acqua.

Questa immagine del pianeta calza anche per il ricercatore Pascal Lee del centro di ricerca Ames della NASA, che ha effettuato molte escursioni nell'isola di Devon, nel Canada settentrionale, che ha un terreno molto simile a quello marziano. Laggiù, tra le valli del cratere da impatto di 24 chilometri Haughton, Lee ed il suo team hanno trovato canali sinuosi che iniziano con una profonda scanalatura a forma di V sul bordo del cratere e finiscono alla base con ammassi di detriti a forma di ventaglio, caratteristiche identiche a quelle dele presunte colate di fango marziane. Ma Lee ritiene che i flussi siano stati causati non dalla discesa di acqua da una sorgente prossima alla superficie ma piuttosto da fiumi d'acqua sepolta ben al di sotto di uno spesso ghiacciaio in fase di ritiro.

 Un clima freddo e secco non impedirebbe l'attività biologica sul pianeta rosso ma, in qualche modo, ne ridurrebbe le possibilità. "Tutti vorremmo Marte simile alla Terra perché qui da noi c'è la vita" dice Clark "Per Marte, però, sarebbe piuttosto diverso" Altre informazioni si possono trovare qui.


Dal meeting Planetary Sciences dell'AAS
Domenica 29 ottobre

A sinistra: Circa 300 milioni di anni fa, un doppio impatto, forse per un duplice asteroide, ha creato il lago Clearwater nel Qubec centro-settentrionale, in Canada. Entrambi i crateri oggi sono pieni d'acqua ed il più grande misura 32 chilometri di diametro. Ripresa dallo Space Shuttle per cortesia NASA/LPI. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Sono stati gli asteroidi a portare l'acqua sulla Terra?

Perché il nostro pianeta è così umido? Questa domanda ha lasciato perplessi gli scienziati per decenni considerato che la Terra si è formata in un ambiente troppo caldo perchè l'acqua si condensasse direttamente dalla nebulosa solare. Per lungo tempo si è ritenuto che uno sciame di comete entrate nel sistema solare interno alla fine della formazione dei pianeti avesse bombardato la Terra circa 4 miliardi di anni fa, durante quello che viene definito "l'ultimo pesante bombardamento". Dato che le comete contengono moltissima acqua infatti, avrebbero potuto facilmente apportare oceani di liquido nell'incontro con il nostro pianeta. Questa teoria presenta, peraltro, diversi difetti. Il più importante è che il rapporto deuterio idrogeno nell'acqua delle comete è molto più elevato di quello dei nostri oceani ed inoltre non c'è una spiegazione convincente del come e perché così tante comete sarebbero potute arrivare in un periodo geologicamente così breve (circa 100 milioni di anni). Per finire, la registrazione dei crateri lunari può essere spiegata da una brusca interruzione nel tasso di impatti, piuttosto che da un'ultimo sussulto nell'attività.

Al meeting internazionale di scienziati planetari della scorsa settimana, un team di studiosi di dinamica guidati da Alessandro Morbidelli e Jean-Marc Petit (Osservatorio di Nizza, Francia) ha formulato l'ipotesi che siano stati asteroidi primitivi, e non comete, la fonte degli oceani terrestri. Secondo il loro modello, all'inizio del processo di accrezione dei pianeti Giove aveva raggiunto dimensioni così ragguardevoli da alterare, con la sua forza gravitazionale, le orbite di tutti gli oggetti della regione oggi nota come fascia degli asteroidi. A quel tempo, la fascia era piena di embrioni di pianeti ed asteroidi, molti dei quali formati sino al 10 per cento da acqua ma in poche decine di milioni di anni più del 99 per cento di questi resti dell'accrezione sono stati spazzati via. Alcuni sono stati iglobati da Giove, altri espulsi dal sistema solare ed altri ancora diretti verso il Sole.

Simulazioni al computer effettuate dal team di Morbidelli hanno rivelato che diversi tra gli oggetti più grandi diretti verso il sistema solare interno potrebbero essersi scontrati con i pianeti in fase di formazione. Da allora, la Terra è diventata abbastanza massiva da trattenere la maggior parte della materia eiettata dalle collisioni evitando che venisse dispersa nello spazio. Gli impattatori quindi, contribuirono in maniera considerevole all'accrescimento del nostro pianeta fornendo acqua più che sufficiente a riempirne gli oceani.

Nello stesso periodo, circa il 5 per cento dei sopravissuti della fascia degli astroidi finirono in orbite molto inclinate ed eccentriche. Nella stadio finale dell'accrezione planetaria, centinaia di questi oggetti piombarono verso i pianeti interni con velocità medie di 30 km al secondo. Con moti così rapidi, gli schianti furono terribili: sulla giovane Luna, per esempio, persino un modesto oggetto di 400 metri di diametro avrebbe lasciato un cratere di 10 km.

Le comete non sono completamente escluse da questa ipotesi. Secondo Morbidelli e Petit, forse 1/10 dell'acqua terrestre potrebbe essere arrivato dalle palle di neve sporca senza influire molto sul rapporto D/H. Inoltre, fanno notare i ricercatori, se l'ultimo bombardamento è stato un sussulto improvviso di oggetti in collisione piuttosto che una tempesta in graduale attenuazione, le comete sarebbero state la fonte principale dell'acqua.


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