Il Notiziario di
Sky & Telescope

Edizione italiana a cura di Mario Farina

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La rivista indispensabile di astronomia

Giovedi 15 giugno

A sinistra: Una fetta di 20 cm del meteorite Zag, caduto in Marocco nell'agosto 1998. Le colorazioni chiare e scure indicano riscaldamenti a temperature diverse e la macchie lucide sono screziature di metallo. A destra: Questo primo piano è centrato su di un cristallo di salgemma (sale da tavola) di 3 millimetri di diametro. Il colore porpora indica dove la radiaizione ha danneggiato il campione prima del suo arrivo sula Terra. Sono visibili anche i segni del taglio. Si ringrazia John Bridges, Natural Museum of London. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Un meteorite salato

Quando James Whitby (Università di Manchester) ed il suo team hanno iniziato ad analizzare il meteorite Zag, non si sono sorpresi nel trovare al suo interno del comune sale da tavola (salgemma). "Sin dalla scoperta di sale pre-terrestre nel meteorite Monahans", spiega Whitby, "sono stati cercati con molta attenzione meteoriti fresche dello stesso tipo".

Il meteorite Zag, che cadde in Marocco nell'agosto 1998 è un'ordinaria condrite, un tipo di meteorite pietrosa che costituisce circa l'86 per cento di tutte quelle ritrovate. All'interno dei cristalli di salgemma, il team ha trovato tracce di xenon 129 (un isotopo formato solitamente dal decadimento radioattivo dello iodio 129) ed argon 40 (un prodotto del decadimento del potassio 40). Secondo le analisi, i cristalli di sale hanno più di 4,5 miliardi di anni, sono quindi più vecchi di due milioni di anni dei più antichi minerali conosciuti del sistema solare.

La presenza di salgemma nel campione indica l'esistenza di brina prima ancora, quando l'acqua è evaporata, si è lasciata dietro il sale. Secondo Whitby, cristalli di sale così antichi fanno ritenere che "la formazione di planetesimi delle dimensioni di circa 10 km, necessaria per fornire le condizioni favorevoli all'acqua liquida, è avvenuta più velocemente di quanto si pensasse".


Mercoledi 14 giugno

A sinistra: Il lancio dello Space InfraRed Telescope Facility (SIRTF) è previsto nel dicembre 2001. Nell'immagine vediamo l'installazione dello spettrometro sulla piattaforma della Multiple Instrument Chamber. Si ringrazia la Ball Aerospace and Technologies Corp. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Prossimamente: SIRTF

Con la dismissione, avvenuta il 4 giugno, del Compton Gamma Ray Observatory, l'opportunità di avere tutti e quattro i grandi osservatori della NASA in orbita contemporaneamente è andata perduta. Con l'Hubble Space Telescope ed il Chandra X-ray Observatory al lavoro senza sosta, l'attenzione è spostata sul lancio, previsto tra 18 mesi, dell'ultimo dei telescopi spaziali.

Lo Space InfraRed Telescope Facility (SIRTF) studierà oggetti che vanno dal sistama solare ai confini dell'universo. La SIRTF avrà un telescopio di 85 cm, raffreddato criogenicamente alla temperatura di circa 5° Kelvin, ed avrà una vita operativa prevista in 5 anni. I suoi tre strumenti principali, il Multiband Imaging Photometer, l'InfraRed Array Camera e l'InfraRed Spectrograph, attualmente sono all'interno della sala di montaggio del telescopio criogenico presso la Ball Aerospace and Technologies Corp. a Boulder, in Colorado. L'intero progetto è gestito dal Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California. Il lancio della sonda è previsto per il 2001.

Una volta in orbita e dopo un periodo di60 giorni di controlli, verrà condotta una survey della durata di 100 ore. Questa fornirà agli astronomi un'istantanea del cielo infrarosso con una sensibilità 100 volte superiore a quelle precedenti. Le informazioni verrno presto elaborate e rese di pubblico dominio, sia per scopi educativi che per fornire degli obiettivi delle ricerche future della SIRTF.


Mercoledi 14 giugno

A sinistra: sei immagini riprese dalla sonda NEAR-Shoemaker da un'altezza di 200 chilometri sono state ricombinate per realizzare questo mosaico della regione polare nord dell'asteroide 433 Eros. Il cratere mezzo in ombra in alto ha un diametro di 5,3 chilometri. Si ringrazia il Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Eros: un condrite colossale

Un brillamento solare del 4 maggio che ha riampito lo spazio interplanetario con i suoi raggi X, ha dato agli scienziati l'insperata possibilità di dare un'occhiata furtiva alla chimica della superficie dell'asteroide 433 Eros. Uno spettrometro a bordo della sonda orbitante NEAR-Shoemaker ha analizzato l'intensità della radiazione X caratteristica, riemessa dai minerali in superficie.

"Le analisi della radiazione X proveniente da un'area di circa 6 km di Eros indica che ha una composizione simile a quella delle rocce più primitive del sistema solare, le meteoriti condritiche", ha detto Jacob Trombka (NASA/Goddard Space Flight Center). La superficie di Eros non ha un eccesso di metalli pesanti o elementi leggeri volatili, ciò implica che la particolare regione osservata durante il brillamento di maggio non presenta differenziazioni ed ha un'origine primordiale.

I risultati sono un'anteprima di uno studio più dettagliato che verrà intrapreso il mese prossimo, quando l'orbita della NEAR-Shoemaker verrà abbassata tra 19 e 29 km dalla superficie. Questo abbassamento permetterà allo spettrometro per raggi X di studiare aree più localizzate, compreso l'interno di diversi vasti crateri. "Poiché gli strumento possono studiare solo la composizione superficiale, osservare l'interno di questi crateri potrebbe rivelarci parecchio sull'interno dell'asteroide", ha detto Trombka.

Mentre la sonda continua a lavorare bene, uno strumento è stato spento. Lo spettrometro per l'infrarosso vicino ha iniziato a segnare una corrente eccessiva ed ha terminato l'invio dei datiil 13 maggio. Delle prove condotte all'inizio di giugno hanno constatato che il problema persiste, il team della NEAR ha quindi optato per lo spegnimento dello spettrometro sino a che verranno raccolte maggiori informazioni in proposito.


Martedi 13 giugno

A sinistra: Il meteorite Dhofar 025 di 781 grammi ha avuto origine sulla Luna. Misura circa 24 per 16 centimetri. Si ringrazia Jutta Zipfel (Max Planck Institute for Chemistry). Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Aumentano i meteoriti lunari e marziani

Con l'annuncio dell'aggiunta di otto nuovi reperti, continua ad aumentare la selezionata confraternita di meteoriti provenienti dalla Luna e da Marte. Tre, di origine marziana, noti come Dar al Gani 670 e 735 e Dhofar 019 erano stati annunciati nel maggio scorso. Le nuove scoperte provenienti da Marte sono Sayh al Uhaymir 005 e 008, trovati il 26 novembre ad 1,9 chimometri di distanza nell'Oman orientale. Queste due località di caduta hanno fornito cinque frammenti grigio-verdi dalle caratteristiche apparentemente identiche, per un totale di 9,9 kg. Tranne 60 grammi, il resto è è rimasto nelle mani di un anonimo scopritore

Contemporaneamente, le sabbie dell'Oman hanno reso anche una nuova coppia di meteoriti lunari. Dhofar 025 e 026 sono amalgame grigio-marroni di strati di roccia fusa espulse dagli altopiani lunari molto tempo fa. Del peso rispettivamente di 751 e 148 grammi, le due sono state scoperte a 20 km di distanza all'inizio di marzo. Anche se completamente diverse per aspetto e composizione, sono prive dello strato fuso ed essendo state trovate vicine, probabilmente hanno una medesima origine. Infine, i cacciatori di meteoriti sono ritornati con una pietra denominata Northwest Africa 032 scoperta, nell'ottobre scorso, in un alocalita segreta del Marocco in prossimità del confine algerino. Questa pietra è molto singolare, persino per gli standard dei meteoriti lunari, perché si tratta di un singolo pezzo di basalto vulcanico (probabilmente proveniente da un mare) anziché un mix di frammenti rocciosi.

Ipotizzando che i quattro reperti marziani di Dar al Gani siano fratelli, il conto dei frammenti emigrati da Marte e dalla Luna sale ora a 16 per tipo. Insieme rappresentano solamente lo 0,2 per cento delle circa 21.000 note cadute in tutto il mondo.


Speciale dall'AAS
Giovedi 8 giugno

A sinistra: La distribuzione di oltre 100.000 galassie, secondo la 2dF Galaxy Redshift Survey. Questa mappa mostra la struttura dell'universo entro una distanza di due miliardi di anni luce dal nostro Gruppo Locale di galassie (al centro). Su scale dell'ordine di decine e centinaia di milioni di anni luce, le galassie si riuniscono in folti gruppi ed in filamenti. Si ringrazia il 2dF Deep Field Survey Team. A destra: La direzione verso cui guarda la 2dF Galaxy Redshift Survey (in alto e basso) vista dalla nostra Via Lattea (al centro). Le regioni attualmente mappate si estendono di oltre 100.000 volte quelle visibili nell'immagine. Si ringrazia Robert Smith, Australian National University. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Una gigantesca mappa dell'universo

Come appare l'universo su larga scala? Quanta materia contiene? Quali sono gli oggetti più grandi che esistono? Per rispondere a queste domande, gli astronomi stanno misurando i redshifts (e quindi le distanze) di migliaia di galassie per realizzare delle gigantesche mappe tridimensionali dell'universo.

La survey più vasta al momento è la 2dF Galaxy Redshift, condotta con i 4 metri del telescopio anglo-australiano con sede in Australia. Al momento, sono stati misurati i redshifts di 106.000 galassie, un numero quattro volte superiore a quello degli studi eseguiti in precedenza. Le galassie si trovano in due sottili regioni di cielo di circa 3° di spessore e 90° di ampiezza che si estendono per 2 miliardi di anni luce dalla Terra, sino ad un redshift di 0,25. Obiettivo della survey è raccogliere 250.000 redshifts. Al meeting di questa settimana dell'American Astronomical Society, Gavin B. Dalton (Oxford University) e Karl Glazebrook (Johns Hopkins University) hanno presentato una mappa delle regioni vagliate sino ad oggi.

Visto in una scala così gigantesca, il cosmo appare come una rete composta da filamenti di ammassi galattici, superammassi, vuoti e "grandi muraglie" sino alla distanza di 500 milioni di anni luce. Mai prima d'ora una mappa tridimensionale ne aveva mostrati così tanti. Uno dei risultati annunciati dagli astronomi è stata la scoperta delle più grandi strutture esistenti. Hanno una mappa sufficientemente grande da poter dire comunque che non ci sono strutture grandi quanto la mappa stessa.

C'è un altro risultato che è ancora più importante: una nuova utile misura della densità della materia nell'universo, basata sulla gravità esercitata dagli ammassi galattici più grandi. "Il concetto è semplice", ha detto Dalton, "Vicino alle grandi concentrazioni di galassie l'espansione dell'universo è rallentata dal loro tiro gravitazionale. Possiamo misurare questo rallentamento e stimare la massa delle concentrazioni. Analizzando i risultati dell'intera survey, possiamo misurare direttamente la massa dell'universo".

Il risultato? La densità di tutta la materia arriva al 40 per cento, più o meno il 10 per cento, di quella necessaria a rendere lo spazio "piatto". La Teoria dell'inflazione del Big Bang prevede che lo spazio sia piatto, e questo è stato provato da due esperimenti condotti con dei palloni-sonda il mese scorso. La massa misurata dal team della 2dF team non è sufficiente, in accordo con i risultati di molti altri gruppi di studio. Il team ha determinato la gravità sia della materia ordinaria che della più grande "materia oscura", composta da un qualche tipo di particelle sconosciute, che si trova negli ammassi galattici. Questa non include, peraltro, l'"energia oscura" scoperta recentemente (la cosiddetta costante cosmologica o energia del vuoto) che esiste, apparentemente, nell'esatta quantità per colmare il deficit e portare il valore della densità totale ad 1.0.

La survey 2dF non è l'unico programma di mappatura cosmica in corso. Parallelamente, la Sloan Digital Sky Survey (SDSS) sta mappando parti diverse di cielo per completare la nostra comprensione dell'universo "visto e toccato".

-- Carolyn Collins Petersen


Speciale dall'AAS
Giovedi 8 giugno

A sinistra: Immagine dell'Hubble Space Telescope del centro di NGC 6397. La freccia indica una file di cinque stelle blu ritardatarie (BSS) presenti nel nucleo (le altre stelle blu visibili nel'immagine a colori esagerati sono principalmente vecchie giganti) In alto a destra: primo piano del nucleo dell'ammasso. Si ringraziano R. A. Saffer e lo STScI. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Prima conferma delle collisioni stellari

Le stelle sono troppo lontane per scontrarsi. Questo è quello che ogni libro di astronomia dice e, nella parte della galassia dove si trova il Sole, fortunatamente per noi è vero. Ma in regioni più ricche di stelle, come nei densi ammassi stellari, gli scontri tra stelle occasionalmente possono avvenire. Mercoledi 7 giugno, Rex A. Saffer (Villanova University) ha annunciato quello che ha definito "la prima prova diretta di una collisione e fusione stellare".

Saffer ha studiato le cosiddette stelle "blu ritardatarie" nel vicino ammasso globulare NGC 6397. Si tratta di stelle della sequenza principale che hanno una massa troppo elevata rispetto all'età dell'ammasso in cui si trovano, e quindi splendono troppo e con luce azzurra. NGC 6397 per esempio, è così vecchio che tutte le sue stelle con una massa superiore a 0,8 volte quella del Sole dovrebbero essersi già evolute esternamente alla sequenza principale, essere diventate giganti e poi morte. Le blu ritardatarie non hanno fatto così. Ciò significa che in qualche modo, devono aver aumentato la loro massa in un'epoca relativamente recente.

Secondo la teoria, questo succederebbe quando due stelle di piccola massa vengono in collisione e si fondono insieme. Queste fusioni possono avvenire in due modi, ha spiegato Saffer: i membri di un sistema binario potrebbero essere perturbati e finire uniti se una terza stella venisse catturata dal sistema, oppure due stelle singole in moto libero potrebbero scontrarsi direttamente.

Le collisioni dirette probabilmente hanno creato cinque vagabonde blu nel denso cuore dell'ammasso, ha detto Saffer. Quattro di queste hanno una massa pari a circa 1,6 masse solari, il doppio del massimo permesso per una stella nata al momento della formazione dell'ammasso; la quinta contiene circa 2,4 masse solari, ciò significa che deve essersi formata dalla coalescenza di tre o più stelle.

La fusione delle binarie dovrebbe invece produrre una varietà di masse più ampia rispetto a questi valori. Un'origine binaria probabilmente è quella delle stelle trovate nelle regioni esterne dell'ammasso, ha continuato Saffer, ma nel cuore "la distribuzione della massa fa propendere all'ipotesi dell'origine per collisione diretta".

-- Alan M. MacRobert


Speciale dall'AAS
Giovedi 8 giugno

A sinistra: La Grande Nube di Magellano, cardine della scala delle distanze cosmiche, si trova a soli 150.000 anni luce di distanza, ha detto un gruppo di astronomi martedi. Fotografia di Dennis di Cicco di Sky & Telescope. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Le binarie ad eclisse potrebbero inchiodare la GNM

Quale argomento polarizza l'attenzione degli astronomi in questi giorni? Uno dei contendenti a questa sfida ha questo titolo infelice ed è relativo alla distanza della Grande Nube di Magellano (GNM), la più grande galassia satellite della Via Lattea

Non che la localizzazione precisa di questo oggetto sia un argomento particolarmente emozionante di per se stesso. E' che da questa dipendono tutte le altre scale delle distanze cosmiche. Sulla distanza della GNM dipendono le distanze e le dimensioni di tutto l'universo che gli è oltre e quindi sono state fatte innumerevoli ipotesi ed è un dato emotivamente molto atteso. La sua conoscenza rimane però ostinatamente inesatta.

Per molti decenni, gli astronomi hanno lottato per determinare questa distanza, con stime che generalmente vanno da 145.000 a 180.000 anni luce. Persino i nuovi ed ingegnosi approcci continuano a dare risultati discordanti, con gli astronomi che si dividono in a volte ostili gruppi a favore della distanza "lunga" o "breve" intorno al valore di 165.000 anni luce.

I ricercatori alla Villanova University ora appaiono decisi a porre fine alla controversia. Usando le tecniche più nuove ed i dati più recenti per ridefinire un metodo per la misura delle distanze che si avvale delle stelle binarie ad eclissi.

L'idea è semplice: misurate una curva di luce ben definita di una binaria ad eclissi, e saprete quanto sono grandi le sue stelle rispetto alle loro orbite relative l'una all'altra. Misurate le velocità radiali (lungo la linea di vista) ed otterrete le dimensioni delle orbite in chilometri. Ora avete il diametro attuale delle stelle in chilometri. Misurate le loro temperature ed avrete la luminosità superficiale, o la luce emessa per chilometro quadrato. Poiché conoscete l'area della superficie della stella, potete ricavarne la luminosità totale. Confrontatela con quella della stella osservata dalla Terra, ed avrete la distanza. Gli studenti l'hanno fatto come compito a casa prima che gli astronomi di oggi nascessero.

L'anello debole di questa catena è stata la luminosità superficiale. Sino ad oggi. Usando l'Hubble Space Telescope per determinare gli spettri stellari con precisione molto alta e compilando i modelli computerizzati delle atmosfere stellari, Edward L. Fitzpatrick e colleghi ritengono di aver risolto il problema. Le binarie ad eclisse sono costituite da stelle calde blu "virtualmente ideali come candele standard", hanno detto al meeting dell'American Astronomical Society meeting. Basandosi sino ad ora sulla misura di due variabili, hanno annunciato una distanza della GNM di 149.000 anni luce con un'incertezza solo del 3-4 per cento, ponendoli tra i sostenitori della distanza breve. "E' un metodo molto solido" ha detto Edward Guinan del team.

Questo valore è inferiore del 10 per cento a quello canonico di 163.000 anni luce. Se venisse confermato, implicherebbe che la costante di Hubble (un'altra grande e più importante contesa nella comunità astronomica) sarebbe 76. Curiosamente, questo valore risolverebbe certi conflitti critici tra le distanze delle galassie.

Fitzpatrick e colleghi esitano nel definire definitivo questo annuncio basandosi sulla misura di sole due variabili ad eclisse ma molte altre sono in cantiere. Nel prossimo anno, i risultati di altre tre dovrebbero "fissare definitivamente la distanza della GNM". E non finirà qui.

Come risultato secondario della survey sulle microlenti, sono state scoperte nella GNM almeno 7.000 binarie ad eclissi. I ricercatori riusciranno a scegliere quelle ideali su cui lavorare. "Nel giro di due o tre anni speriamo di avere i dati di 25" ha detto Guinan. "Il problema principale è avere il tempo del telescopio. Per fare la spettroscopia, abbiamo bisogno di telescopi di grande apertura.

Un metodo diverso per la misura delle distanza fa uso delle stelle variabili Cefeidi. "E' interessante notare uno dei membri di tre binarie ad eclissi nella GNM sono variabili Cefeidi", ha detto Guinan. "Sicuramente cercheremo di osservarle. Avrete tutto in una volta sola, anche la calibrazione delle Cefeidi".

-- Govert Schilling


Speciale dall'AAS
Giovedi 8 giugno

A sinistra: Il Navy Prototype Optical Interferometer è formato da una serie di specchi di 0,5 metri dislocati ad Anderson Mesa a Flagstaff, in Arizona. Lo strumento non è ancora completo quindi solo la luce proveniente da tre specchi viene ricombinata per simulare la capacità risolutiva di un telescopio ottico singolo di 38 metri di diametro. Quando sarà completamente operativo, sarà composto da 10 specchi con una linea di base totale di 440 metri. Fotografia di Nat White, Lowell Observatory. A destra: Il Navy Prototype Optical Interferometer ha misurato il diametro di sette stelle, qui presentate nelle relative dimensioni. Anche il Sole è nella stessa scala. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

La natura variabile della Polare

Una delle prime cose che gli astrofili dell'emisfero settentrionale imparano è come trovare la Polare, la Stella del Nord. Tutti sanno che una volta trovata, si sta guardando a Nord. Quello che sorprende alcuni appassionati è che la Polare è leggermente variabile, cosa che gli astronomi sanno da molti decenni. infatti è una variabile cefeide, una classe di stelle pulsanti la cui luce emessa (luminosità) dipende dal periodo della pulsazione. Quello della Polare è di 4 giorni e su questa base si è stabilito che ha una dimensione pari a 38 volte quella del Sole.

La Polare però sembra essere una "pulsante sovratonica". Le Cefeidi regolari diventano più e meno luminose perché gli strati esterni si espandono e contraggono in modo uniforme. Nel 1997 però, un gruppo di astronomi africani ed europei hanno scoperto che non tutto il volume della Polare, quando pulsa, si espande e contrae allo stesso tempo.

In un carteggio reso noto mercoledi al meeting dell'AAS, un team di astronomi facendo uso del Navy Prototype Optical Interferometer di Flagstaff, in Arizona, ha presentato una misurazione che mostra che la Polare al momento è 45 volte più grande del Sole. La differenza è dovuta al fatto che la stella, come poche altre Cefeidi, pulsa in maniera complessa.

-- Carolyn Collins Petersen


Speciale dall'AAS
Giovedi 8 giugno

Aggiunte nuove classi di stelle

L'alfabeto astronomico di base è da tempo OBAFGKM. Ciascuna lettera si riferisce ad una famiglia di stelle raggruppate in base alla temperatura. Le stelle di tipo O sono caldissime e blu mentre le M sono calde e rosse. Sino a poco fa la maggior parte degli astronomi riteneva che quelle di tipo M fossero le ultime della serie ma ciò accadeva prima che i moderni rivelatori all'infrarosso venissero sviluppati ed iniziassero a sondare il cielo. Ora gli astronomi stanno scoprendo oggetti molto freddi, deboli e di piccola massa ben al di sotto della classe M. In un dibattito all'AAS, l'astronomo Davy Kirkpatrick (Infrared Processing Analysis Center/Caltech) ha descritto gli ultimi due arrivi di questo alfabeto stellare: L e T.

Le nane di tipo L variano da 2.000° a 1.300° Kelvin e quelle più mature hanno una massa pari a meno di 90 volte quella del pianeta Giove. Le stelle T vanno da 1.300° a 750° K. Queste nane e le loro particolari caratteristiche verranno analizzate in un prossimo numero di Sky & Telescope.

-- Carolyn Collins Petersen


Speciale dall'AAS
Giovedi 8 giugno

A sinistra: Un'immagine della nebulosa planetaria Occhio di gatto nella costellazione del Drago, presenta anelli concentrici di materia. Si ringraziano Bruce Balick ed altri. A destra: Immagine in falsi colori della nebulosa ripresa dall'Hubble Space Telescope nel 1995. Si ringraziano J. P. Harrington e K. J. Borkowski (Università del Maryland) e la NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Scoperti degli anelli intorno alla Nebulosa Occhio di gatto

Una delle immagini più belle ottenute in questi ultimi anni dall'Hubble Space Telescope è stata quella della Nebulosa Occhio di gatto (NGC 6543). Questa nebulosa planetaria è tutto ciò che resta di una stella come il Sole, che circa 1.000 anni fa ha perso buona parte della sua massa. Nel 1999, l'astronomo Bruce Balick (Università di Washington) e l'allievo Darren Reed stavano analizzando le immagini dell'HST della nebulosa quando notarono una serie di segni estremamente tenui che sembravano circondarla. Questi si rivelarono essere una serie di almeno nove anelli emessi in precedenza, ad intervalli regolari di 1.500 anni con inizio 20.000 anni fa. La stella, apparentemente, ha soffiato questi anelli nel corso della fase precedente al processo della sua morte. Ogni anello contiene migliaia di masse terrestri di materia stellare. "Ciascuna fuoriuscita sarebbe stata spettacolare se osservata da un pianeta vicino", ha detto Balick. "La stella si sarebbe espansa sino alle dimensioni dell'orbita terrestre".

Questa notevole succesione di espulsioni aggiunge un altro frammento al mosaico della morte della stella che Balick ed altri astronomi stanno ricostruendo. Le nebulose planetarie sono tra gli oggetti più affascinanti del cielo e quelle come la Nebulosa Occhio di gatto sono rare. La maggior parte delle stelle morenti produce dei lobi a forma di arachide, dei getti o delle nebulose a forma di uovo.

-- Carolyn Collins Petersen


Speciale dall'AAS
Mercoledi 7 giugno

A sinistra: Stessa faccia, stessa razza. La pulsar della vela (a sinistra), ripresa nuovamente dal Chandra X-ray Observatory, è circondata da anelli e getti particolarmente simili a quelli che circondano la Nebulosa del Granchio, ripresa dal Chandra in precedenza (a destra). ogni pulsar sta viaggiando nel cielo nella direzione dei suoi getti (indicati dalle frecce). I falsi colori non hanno significato. Si ringrazia il Chandra X-Ray Observatory. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Il Chandra si mette in mostra

In 11 mesi, dal giorno della messa in orbita del Chandra X-ray Observatory, l'astronomia a raggi X ha subito una bella spinta in avanti. Diversi astronomi che l'hanno utilizzato, hanno presentato, martedi e mercoledi 6 e 7 giugno, le loro scoperte insieme ad altri colleghi ed alla stampa al meeting dell'AAS. Tra gli oggetti al centro dell'attenzione, le strane strutture intorno alla pulsar della Vela, una nebulosa planetaria con una forte emissione di raggi X ed un getto galattico estremamente potente.

La pulsar della Vela è una giovane stella di neutroni a circa 1.000 anni luce di distanza che ruota su se stessa 11 volte al secondo, si tratta di un piccolo e denso resto di supernova che esplose circa 10.000 anni fa. La pulsar ha un diametro di soli 20 km ma la sua superficie è così calda (2 milioni di gradi Kelvin) da diventare estremamente luminosa nella radiazione X mostrandosi come un punto luminoso nelle immagini del Chandra.

La pulsar della Vela è nota per le sue "scintillazioni": improvvise e rapide variazioni nella velocità di rotazione. Uno rilevante è avvenuto il 16 gennaio e, poco dopo, il Chandra vi ha posato lo sguardo. Secondo le teorie attuali, in seguito all'evento la superficie della pulsar si riscalderebbe leggermente. Il Chandra ha scoperto invece che la sua temperatura è immobile come una roccia: è variata infatti solo di una parte su 300. I teorici di questo fenomeno dovranno quindi tornare sui loro passi e rielaborarne le teorie.

La pulsar è circondata da una piccola nebulosa che presenta una struttura complessa. Nell'immagine in alto, i due archi luminosi sembrano essere i lati più vicini di due anelli connessi; i getti emergono perpendicolarmente dalla pulsar e segnano, si presume, i poli della stella di neutroni. E' interessante notare che i getti sono allineati esattamente con la direzione nella quale si sta muovendo la pulsar in cielo alla velocità di 100 km al secondo. E' la seconda volta che viene scoperto un simile allineamento getto-moto della stella, dopo quello trovato in precedenza della Nebulosa del Granchio, un resto di supernova ancora più giovane.

Alcuni astronomi si sono domandati se questo allineamento fosse o meno una coincidenza. "E' una vera tentazione ritenere che il getto si comporti come un razzo che accellera la pulsar", ha detto martedi George V. Pavlov (Penn State University). I getti trasportano una piccola massa ma si muovono con estrema velocità; sono formati da particelle accelerate da un campo elettrico con una potenza, nei pressi dei poli della pulsar, di centinaia di miliardi di volts per centimetro. Questo campo elettrico è generato dal fortissimo campo magnetico della pulsar e ruota velocemente. Se il getto di uno dei poli è più forte dell'altro, agisce come un razzo per migliaia di anni e potrebbe pertanto accelerare la pulsar alle velocità che sono state effettivamente osservate, ipotizza Pavlov.

La spiegazione che va per la maggiore, è invece quella che la supernova sia esplosa asimmetricamente ed abbia impartito, al momento della nascita, una spinta alla pulsar. Se così fosse, i getti osservati dal Chandra farebbero ritenere che la spinta sia un qualcosa impartito lungo l'asse di rotazione della stella esplosa.



La sottile nebulosa planetaria che circonda la stella morente BD+30°3639, vista nella luce visibile dall'Hubble Space Telescope (in alto), nell'infrarosso dal Gemini North telescope (in mezzo) e nei raggi X dal Chandra (in basso). Ciascun fotogramma misura circa 6 secondi d'arco per lato. Si ringraziano J. P. Harrington (Università del Maryland), il Gemini Telescopes/Institute for Astronomy e J. H. Kastner (RIT). Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Un altro team di astronomi ha utilizzato il Chandra per esaminare una sottile e giovane nebulosa planetaria ed ha scoperto che, come predice la teoria, contiene gas caldi che emettono radiazioni X.

Una bolla di gas circonda la stella morente BD+30°3639, che si trova a circa 5-8.000 anni luce di distanza. Venti veloci emessi dalla calda stella nana bianca al suo centro dovrebbero collidere con del materiale più lento eiettato in precedenza, riscaldandolo a temperature di milioni di gradi ed emettendo raggi X. Joel H. Kastner (Rochester Institute of Technology) ha mostrato l'immagine con la prima prova che questo è proprio quello che si sta verificando. Il Chandra ha scoperto nel gas caldo anche la firma spettrale del neon, dimostrando che contiene materia proveniente dagli strati più profondi della stella.

Le ricerche sulle nebulose planetarie potrebbero avere ampie implicazioni. La bella forma bipolare simmetrica presente nella maggior parte delle planetarie potrebbe essere dovuta ad una compagna che orbita nel gas espulso, che in alcuni casi potrebbe essere piccola quanto Giove. "Le asimmetrie che osserviamo nelle nebulose planetarie potrebbero dirci molto a proposito di questi pianeti-stella", ha detto Kastner. Una stella gigante in espansione potrebbe inghiottire un pianeta che poi ne potrebbe aumenterebbe la velocità di rotazione, ha spiegato Kastner. La rotazione potrebbe poi dare forma alla nebulosa emessa. In alternativa, una compagna di grande massa in orbita più lontana potrebbe accompagnare gravitazionalmente il flusso di materia espulso della nebulosa.



In alto: Il nucleo della radiogalassia Pictor A (a sinistra) emette un getto che crea una macchia luminosa nella radiazione X (a destra) laddove colpisce il gas interglattico ad almeno 800.000 anni luce di distanza dalla galassia stessa. Si ringraziano NASA ed Università del Maryland. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

La gigantesca Pictor A è la più potente galassia radioemettitrice nel raggio di 650 milioni di anni luce. Il Chandra ha dimostrato che emette anche un sottilissimo raggio lungo almeno 800.000 anni luce. Questo si scontra alla fine di grandi lobi, visibili alle lunghezze d'onda radio in entrambi i lati della galassia.

Nella regione dello scontro, ha spiegato Andrew S. Wilson (Università del Maryland), gli elettroni vengono accelerati a velocità così prossime a quella della luce che ognuno trasporta un'energia 100 milioni di volte superiore a quella che possiede la sua massa. "E' la prima volta che viene osservata una'accelerazione simile così lontano da una galassia". Potrebbe essere che stiamo osservando una delle sorgenti di raggi cosmici ad energia veramente elevata.

-- Alan M. MacRobert


Speciale dall'AAS
Mercoledi 7 giugno

A sinistra: Gli astrofili si stanno facendo strada nei regni della ricerca occupati solitamente dai professionisti. L'appassionato Paul Boltwood di Ottawa ha mostrato le capacità di osservare il cielo profondo dal suo osservatorio di casa con questa immagine. Realizzata con un telescopio newton autocostruito ed una camera CCD, riprende oggetti sino alla eccezionale magnudine di 24,5. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Colmare la distanza tra astrofili ed astronomi

Ogni notte, astrofili di tutto il mondo tornano dal lavoro, tirano fuori i telescopi, cenano e, come gli astronomi professionisti danno inizio al loro, in questo caso "secondo", lavoro.

Nei due decenni passati, appassionati di astronomia e professionisti hanno lavorato insieme a progetti di ricerca che vanno dallo studio del sistema solare alle stelle variabili, alla ricerca di supernove. I professionisti possono approfittare di una serie di telescopi equipaggiati con moderne camere CCD e gli astrofili hanno trovato delle guide scientifiche, a dispetto di alcune frizioni culturali tra i due gruppi.

Al meeting dell'AAS, uno dopo l'altro sono stati presentati i lavori frutto delle collaborazioni professionisti-amatori e si è poi discusso sulla questione: "Cosa vogliono astrofili e profesionisti gli uni dagli altri?"

La collaborazione più nota è quella dell'American Association of Variable Star Observers (AAVSO) con quasi 600 osservatori che ha fornito ai professionisti informazioni di valore inestimabile, ottenute con l'utilizzo di ogni tipo di strumento. La direttrice dell'AAVSO, Janet Mattei, ha detto che i suoi membri hanno fornito da 300.000 a 500.000 osservazioni di stelle variabili luminose per anno. Nel novembre 1997, una singola osservazione della variabile cataclismica U Geminorum eseguita da Gene Hanson di Phoenix, in Arizona, è stata sufficiente ad allertare gli operatori dell'Extreme Ultraviolet Explorer e del Rossi X-Ray Timing Explorer per seguire il rapido aumento di intensità di questo oggetto esplosivo. Hansen stava seguendo la stella con il suo telescopio dobson di 45 cm.

Brian Marsden, dell'Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics lavora con l'astrofilo Warren Offutt per determinare le orbite dei piccoli oggetti del sistema solare conosciuti come Plutini (piccoli plutone), gli oggetti trans-nettuniani (TNOs), gli oggetti Kuiper-Belt (KBOs), i Centauri ed i Cubewanos. Offutt descrive il suo lavoro come una sfida: "Questi oggetti sono deboli e poiché non abbiamo grandi telescopi, dobbiamo puntare ad avere larghe aperture per lunghi periodi di osservazione".

Paul Boltwood, l'astrofilo che ha vinto il concorso "Deep Field Challenge" di Sky & Telescope per aver realizzato l'osservazione amatoriale più debole (magnitudine 24.1), si è specializzato in misure delle variazioni di luminosità delle blazars (galassie con un nucleo eccezionalmente attivo). Lavora con Alberto Sadun all'Università del Colorado ed ha presentato uno scritto nel quale pone l'accento sulla necessità di ampliare le collaborazioni per portare alla conoscenza ed al rispetto reciproco per ciò che ognuno ha da offrire. "Abbiamo la necessità di eduxcare meglio noi stessi a proposito dei nostri partners", ha detto.

Ha poi enfatizzato il concetto dicendo che i professionisti dovrebbero vedere gli appassionati come qualcosa in più che una fonte di lavoro fatto gratuitamente. Allo stesso modo, ha puntualizzato, gli astrofili hanno la responsabilità di comprendere le costrizioni in cui operano i professionisti e che conterebbero sulle loro contropoarti professioniste affinché queste ultime gli spiegassero di quali ricerche scientifiche necessitano.

Per l'osservatore William Alexander, la necessità di avere delle guide per la riduzione dei dati dell'Hubble Space Telescope per le sue ossevazioni amatoriali del mezzo interstellare l'ha portato a conoscere Jeffrey Linsky, astrofisico presso l'Università del Colorado. Linsky, che aveva eseguito osservazioni simili sull'ISM, ha lavorato con Alexander prendendolo nel suo gruppo di studio per seguire ogni passo della strada della ricerca da percorrere, dalla riduzione dei dati all'eventuale pubblicazione.

L'astrofisico di Princeton Bohdan Paczynski ha descritto un programma di ricerca automatica di nuove stelle variabili che ha redatto basandosi su un prototipo di survey che fece con l'astrofilo Grzegorz Pojmanski. Insieme hanno scoperto ed ottenuto le curve di luce di 3.900 variabili con un semplice telescopio di 7,5 cm con una camera CCD Pictor/Meade. "Ci sono tante ricerche scientifiche che possono esere condotte con un telescopio da 7 cm" ha detto Paczynski. "Anche l'hardware, il software, i CCD ed internet sono una buona occasione per aumentare le collaborazioni".

Un risultato di questa sessione speciale dell'AAS potrebbe essere una serie di linee guida per gli astrofili ed i professionisti alla ricerca di collaborazioni. Un altro potrebbe essere una sorta di registro per mettere in contatto i ricercatori per future collaborazioni.

-- Carolyn Collins Petersen


Speciale dall'AAS
Mercoledi 7 giugno

A sinistra: Tra i progetti proposti per il Next Generation Space Telescope c'è questo della Lockheed Martin. Ha uno specchio primario segmentato di 8 metri di diametro ed uno schermo il Sole e mantenerlo freddo ed al buio. Si ringrazia la NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Lo Space Telescope del futuro

Il 18 maggio, l'Astronomy and Astrophysics Survey Committee del National Research Council ha pubblicato il Decadal Review. In esso, il comitato sottolinea i progetti astronomici più importanti che gli Stati Uniti intraprenderanno nei prossimi 10 anni. In cima alla lista ci sono diversi telescopi innovativi, molti dei quali descritti martedi alla conferenza dell'AAS.

In prima fila nelle priorità astronomiche c'è il Next Generation Space Telescope (NGST). Previsto come continuazione dell'Hubble Space Telescope (HST), il NGST avrà uno specchio primario segmentato di 8 metri e lavorerà principalmente nell'infrarosso. A titolo di paragone, l'HST ospita uno specchio primario singolo di 2,4 metri. Il lancio del telescopio, previsto nel 2009, è ancora nella fase preliminare del progetto e la maggior parte delle commesse non sono ancora state assegnate. Nel frattempo, diverse proposte tra quelle in competizione per aggiudicarsi i lavori sono state presentate alla conferenza dell'AAS.

Sono due le società in competizione per la costruzione dell'NGST, TRW e Lockheed Martin. Entrambe hanno un prototipo del telescopio anche se nessuna ha svelato dei dettagli specifici del progetto, lo faranno dopo che, alla fine del 2001, verrà assegnato l'appalto. Al pubblico quindi, sono state rivelate sono le principali caratteristiche di base.

A differenza dell'HST, che è in orbita terrestre, l'NGST orbiterà nel punto L2 di Lagrang, una regione di stabilità gravitazionale del sistema Terra-Sole ad 1,6 milioni di chilometri dalla Terra. L'orbita L2 ha il vantaggio di porre il telescopio oltre l'ombra terrestre e la radiazione irradiata dal pianeta. Questa locazione ha, d'altra parte, uno svantaggio: L2 è troppo lontana per poter essere raggiunta dallo Space Shuttle, rendendo impossibile un'eventuale manutenzione o riparazione dell'NGST. "L'abbiamo scelta per bene" ha puntualizzato John Mather, scienziato del progetto NGST (NASA/Goddard Space Flight Center). Le orbite lagrangiane non sono nuove alla NASA: è già dal 1978 che vi sono state poste delle sonde.

L'NGST avrà anche uno schermo solare delle dimensioni di un campo da tennis. Attualmente, il progetto del telescopio prevede delle ottiche completamente esposte, a differenza di quelle tradizionali o persino dell'HST non c'è un tubo ottico. Al suo posto, lo schermo solare bloccherà la luce solare mantenendo le ottiche fredde (50° Kelvin) ed al buio. Gli scienziati, peraltro, non sanno esattamente come funzionerà lo schermo solare una volta nello spazio. Una preoccupazione è relativa al fatto che potrebbe funzionare come una vela solare, spinta dall'energia dei fotoni e delle particelle come il vento che soffia sulle vele sulla terra. Per testare queste condizioni, è prevista la missione Inflatable Sun shade In Space (ISIS) che verrà portata nello spazio dallo Space Shuttle nel 2001. Di importanza più rilevante sarà qualsiasi torsione impartita sulla vela dal Sole. L'NGST dovrà essere stabile in ogni momento ed il vento solare potrebbe indurre delle vibrazioni inaccettabili.

L'NGST introdurrà anche una serie di nuove tecnologie la maggior parte delle quali verrà provata nella missione Nexus, un modello ridotto ad 1/3 dell'NGST che verrà lanciato nell'orbita L2 come dimostrazione tecnologica (vedi sotto).

Tra gli altri aspetti dell'NGST presentati all'AAS ci sono le proposte sull'aspetto dello specchio primario ed i suoi vari strumenti tra cui uno spettrografo multioggetto (MOS - Multi-Object Spectrograph) capace di osservare 6.000 oggetti contemporaneamente. Il rivelatore MOS sarà formato da una serie di 4.000 x 4.000 microotturatori, ciascuno del diametro di solo 100 microns. Lo schema permetterà l'apertura di solo alcuni di questi alla volta, rendendo possibile la realizzazione di configurazioni personalizzate delle fenditure dello spettrografo, per poter realizzare ricerche specifiche.

-- David Tytell


Speciale dall'AAS
Mercoledi 7 giugno

A sinistra: Il progetto Nexus è una missione tecnologica dimostrativa che ha lo scopo di porre rimedio ad eventuali potenziali problemi del Next Generation Space Telescope. A dispetto dello specchio di 2,5 metri, non è previsto che trasporti strumenti scientifici e non è stato progettato per sostituire l'Hubble Space Telescope. Si ringrazia la NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Nexus: è solo una prova?

Anche se pochi astronomi lo sanno, all'inizio del 2005 la NASA lancerà un nuovo telescopio spaziale con un'apertura supreiore a quella di Hubble. Conosciuto come Nexus, questa missione di prova è destinata alla verifica delle tecnologie che verranno utilizzate per il Next Generation Space Telescope.

Il Nexus è un modello ridotto ad 1/3 dell'NGST ed ospita uno specchio primario di circa 2,5 metri. Avrà gli stessi componenti dell'NGST ed orbiterà anch'esso nel punto L2 di Lagrange. A differenza però del fratello maggiore, il Nexus non invierà dati scientifici, il suo obiettivo è semplicemente quello di provare che le tecnologie dell'NGST funzionano. "L'importante è il collegamento tra lo sviluppo tecnologico e lo strumento scientifico definitivo, l'NGST", puntualizza Richard Burg, addetto alla progettazione scientifica. "Si tratta di un vero e proprio passo verso l'NGST e la strada ancora da percorrere non è delle più agili".

Poiché la commessa non è stata ancora assegnata, non è ancora chiaro chi lo costruirà. Quando verrà presa questa decisione, entro la fine del 2001, rimarranno solo tre anni prima della prevista data di lancio, un tempo pari a circa la metà di quello richiesto da missioni di analoga complessità.

L'unico strumento a bordo del Nexus sarà una camera con un campo di ripresa inferiore ad un solo minuto d'arco e , come si è affrettato a chiarire Burg, "motivi tecnici, e non scientifici, ne hanno dettato le caratteristiche". Lo strumento osserverà solo un ristretto numero di obiettivi e tutti i dati raccolti saranno disponibili per gli astronomi. A proposito dell'immenso potenziale scientifico, Burg insiste nello spiegare che la missione, del costo di 200 milioni di dollari, rimarrà solo una dimostrazione tecnologica. "Sarebbe difficile ampliare il Nexus senza poi mettere pressione all'NGST. Al momento, la conferma tecnica ha la precedenza".

-- David Tytell


Speciale dall'AAS
Martedi 6 giugno

A sinistra: I fotogrammi in bianco e nero, ripresi da telescopi terrestri, mostrano quattro galassie che hanno un buco nero centrale. Piccoli riquadri evidenziano le regioni centrali osservate dall'Hubble Space Telescope (al centro). La colonna a destra elenca le masse dei buchi neri e ne illustra i rispettivi diametri. Il diametro di questi oggetti è direttamente proporzionale alla sua massa. Si ringraziano la NASA e Karl Gebhardt (Lick Observatory). Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

I buchi neri ed i rigonfiamenti galattici non sono mai soli

E' opinione comune ormai che i buchi neri supermassivi si trovino al centro della maggior parte delle galassie e che continuino velocemente a svelare nuovi segreti. Lunedi 5 e martedi 6 giugno al meeting biennale dell'American Astronomical Society a Rochester, New York, gli astronomi hanno riportato gli esiti di una serie di recenti ricerche.

Il conto dei buchi neri giganti di cui sia nota la massa con precisione ora è salito a 33, grazie all'Imaging Spectrograph dell'Hubble Space Telescope, che può misurare le velocità orbitali medie delle stelle molto più vicine al nucleo galattico di quanto possano fare gli osservatori terrestri. I buchi catalogati ad oggi hanno una massa tra un milione e 2,4 miiardi di masse solari.

Sta diventanto chiaro che queste dense ed oscure creature abitino in ogni galassia che possegga un rigonfiamento centrale, il vasto sciame ellittico di vecchie stelle che costituisce la parte predominante delle galassie. E' risultato inoltre che il buco nero centrale ed il rigonfiamento sono intimamente legati: più grande il rigonfiamento, più grande il buco. "I buchi neri standard hanno un peso pari allo 0.2 per cento della massa del rigonfiamento galattico" ha dichiarato John Kormendy (Università del Texas di Austin) alla conferenza stampa di lunedi. Qualsiasi cosa governi la formazione di un rigonfiamento galattico apparentemente regola, in proporzione, anche la formazione del buco al suo interno.

Questa regola vale anche se una galassia termina con un disco, una ciambella di gas e giovani stelle come quella della Via Lattea in cui abitiamo. I dischi galattici sembrano essere copmpletamente estranei alla questione dei buchi neri centrali. Le galassie che hanno solo il disco ma sono prive di rigonfiamento, sono tutte prive di buchi neri. Un esempio vicino è M33, la ruota del carro nel Triangolo. Il limite superiore di un possibile buco nero al suo centro ora è sceso ad appena 2.000 masse solari.

D'altra parte, l'intrigante correlazione rigonfiamento-buco nero si applica sia ai veri bulbi galattici appartenenti all'inizio dell'universo sia ai giovani "pseudobulbi" che si possono formare se i gas in una galassia formata solo dal disco cadono verso il centro (come nelle spirali barrate).

Gli esperti di buchi neri hanno annunciato la scoperta di un'altro strano collegamento: la massa di un buco nero galattico è strettamente legata alla netta delimitazione del rigonfiamento. La regola è valida anche per le regioni esterne del rigonfiamento dove l'influenza gravitazionale del buco nero è irrilevante. E' un altro segno che i processi di formazione del buco e del rigonfiamento sono intimamente legati, in un modo impensabile sino ad ora.

Kormendy ha raccolto un evidente consenso. "Sembra che i rigonfiamenti si formino all'inizio con processi violenti che generano molte esplosioni: nascite stellari che alimenterebbero il buco nero e formerebbero i quasar. La formazione dei dischi avviene pigramente, si formano piano e gradualmente. Lo stretto legame tra buchi neri ed rigonfiamenti e la completa assenza di connessioni tra i primi ed i dischi, pone l'accento su come siano realmente differenti questi due processi della formazione galattica.

Tutto ciò ha portato all'idea, sempre più diffusa, che buchi e rigonfiamenti galattici si formino simultaneamente piuttosto che i buchi siano nati nudi e soli subito dopo il Big Bang e che in seguito le galassie gli si siano formate intorno come ha proposto recentemente, sei mesi fa, uno dei partecipanti.

-- Alan M. MacRobert


Speciale dall'AAS
Martedi 6 giugno

A sinistra: Questa immagini in falsi colori dallo Hubble Space Telescope risolve particolari come il denso ammasso globulare 47 Tucanae. Si ringrazia R. Saffer (Villanova University), D. Zurek (STScI) e la NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Negli ammassi globulari non ci sono pianeti

E' una scena che ha catturato l'immaginazione degli astronomi e dei lettori di romanzi di fantascienza per generazioni: un cielo riempito con migliaia di stelle, quello osservato dalla superficie di un pianeta in un ammasso globulare. Se potessimo andarci, questa sarebbe la scena che si presenterebbe ai nostri occhi; ci sarebbe però il problema di trovare un pianeta su cui stare: le stelle degli ammassi globulari semplicemente potrebbero non avere dei pianeti. O almeno non sarebbero molte quelle che ne hanno uno.

Al meeting dell'AAS di Rochester un team di 24 astronomi, tra cui molti dei più importanti cacciatori di pianeti del mondo, hanno presentato i risultati di una campagna di monitoraggio del grande ammasso globulare 47 Tucanae, condotta con l'ausilio dell'Hubble Space Telescope. L'ammasso è stato fotografato circa 645 volte in un periodo di 8,3 giorni, monitorando le luminosità di 34.091 stelle nella speranza di riprendere il transito di un pianeta sulla faccia di qualche stella e misurarne la leggera diminuzione di luminosità.

Se i pianeti giganti in orbita molto vicina alla propria stella fossero stati così comuni in 47 Tucanae, come nell'angolo della Via Lattea in cui si trova il Sole, gli astronomi avebbero dovuto registrare circa 17 transiti. Invece non ne è stato rilevato neppure uno.

Ciò potrebbe avere diversi significati. Potrebbe essere che i pianeti negli ammassi globulari non si formino proprio considerato che hanno una proporzione di elementi pesanti (qualsiasi elemento più pesante dell'idrogeno e dell'elio) molto più bassa rispetto ai pressi del sistema solare. Anche se i pianeti giganti stessi dovrebbero essere composti da idrogeno ed elio, probabilmente per iniziare hanno bisogno di un nucleo di materiale solido abbastanza grande da far partire il processo di accrezione del pianeta.

Un'altra possibilità è che i sistemi solari si siano formati ma siano stati distrutti dalla vicinanza di quelle stesse stelle che riempiono il cielo di un ammasso globulare. Una stella occasionale che passasse abbastanza vicino infatti, potrebbe facilmente trascinare un pianeta gigante esterno in un'orbita eccentrica, dove in seguito potrebbe diffondere il caos orbitale nei pianeti interni e lanciarli fuori dal sistema o verso il loro sole. Un pianeta tipo Giove tenuto in un'orbita stretta sarebbe immune a tanta distruzione ma, forse, questo potrebbe accadere solamente all'inizio della vita del sistema, prima cioé che il pianeta abbia avuto il tempo di migrare verso l'interno e diventare caldo. Le simulazioni hanno mostrato che simili tiri alla fune possono essere realmente disastrosi per i sistemi solari delle stelle che si formano in questi densi ammassi.

Gli astronomi concludono: "Saranno necessarie ulteriori osservazioni di stelle in situazioni differenti, per sapere se l'influenza predominante è quella della bassa metallicità, dell'ambiente affollato o di qualche altro fattore"

-- Alan M. MacRobert


Speciale dall'AAS
Martedi 6 giugno

A sinistra: La cometa Hale-Bopp nel cielo serale dell'inizio del 1997. Osservazioni spettroscopiche della cometa hanno rivelato la presenza di argon nella chioma. Dennis di Cicco di Sky & Telescope ha realizzato questa imagine il 17 marzo 1997 da una zona buia a sud di Boston, nel Massachusetts con una camera Schmidt di 20 cm f/1.5. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

La fredda e lontana origine dell'Hale-Bopp

Sembra la ricetta per un videogames a soggetto astronomico: prima lanciare un razzo equipaggiato con un telescopio in un volo suborbitale di 5 minuti. Poi stabilizzarlo e quindi lasciare i comandi ad un paio di scienziati lasciandogli usare il joystick per puntare il telescopio verso una luminosa cometa. Il risultato? La prima rilevazione della presenza del gas nobile argon in una cometa ed un tuffo nel gelo profondo della nebulosa solare primordiale dove si formò.

Lunedi, al meeting dell'American Astronomical Society, S. Alan Stern, un ricercatore del Southwest Research Institute in Texas ha parlato delle analisi dei dati spettroscopici raccolti il 29 marzo 1997 da un telescopio per l'ultravioletto estremo (EUV) ed uno spettrometro lanciati con un razzo dalla base White Sands Missile Range nel Nuovo Messico. Quando, recentemente, Stern ed il suo team hanno terminato di ridurre i dati, hanno trovato l'inequivocabile firma dell'argon.

La sua presenza è molto significativa. L'argon sarebbe fuoriuscito completamente se il grosso del nucleo della cometa fosse stato esposto a temperature di oltre 30° o 35° Kelvin sin dai tempi della formazione, all'inizio della storia del sistema solare. D'altra parte, il team non ha scoperto tracce di neon nell'Hale-Bopp. Il neon si disperde a temperature di circa 20° Kelvin, ciò significa che il nucleo è arrivato almeno sino a questa temperatura.

Questo inquadramento nella storia del riscaldamento della Hale-Bopp implica che la cometa si deve essere formata, molto probabilmente, nella fredda regione del sistema solare in prossimità della posizione attuale di Urano e Nettuno, più lontano di quanto gli astronomi si aspettassero.

Stern e colleghi, tra cui Michael A'Hearn dell'Università del Maryland e Michel Festou dell'Osservatorio del Midi nei Pirenei, in Francia, stanno progettando di studiare altre comete utilizzando la stessa tecnica ma con strumenti migliori. Nei prossimi anni, sperano di verificare la presenza o l'assenza di altri gas che potrebbero essere stati presenti all'inizio della formazione del sistema solare nelle comete Wirtanin, Machholz 1 ed Encke. "Sarà estremamente eccitante", ha detto Stern, "quando osserveremo queste comete con altri voli studieremo altri tipi di emissioni che ci diranno quali condizioni ci possano essere state nel sistema solare primordiale".

-- Carolyn Collins Petersen


Speciale dall'AAS
Martedi 6 giugno

A sinistra: Il Katzman Automatic Imaging Telescope (KAIT) di 76 cm è uno strumento completamente autonomo. Scruta il cielo notturno alla ricerca di supernovae e, quando ne rileva una, informa gli astronomi che lavorano all'Università della California, a Berkeley,. Si ringrazia il KAIT Team. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Ricerche intensive con i telescopi robotizzati

Tra le cupole dell'Osservatorio Lick, sulla sommità di Mount Hamilton in California, c'è il Katzman Automatic Imaging Telescope (KAIT) di 76 cm. Ad una prima occhiata, il KAIT assomiglia agli altri telescopi che sono sulla montagna. Ogni notte la cupola si apre ed il telescopio trascorre le ore muovendosi ed osservando il cielo nella speranza di fare un'altra scoperta. Ma, a differenza degli altri, il KAIT fa tutto da solo, senza l'aiuto dell'uomo.

Il KAIT è solo uno del crescente numero di telescopi automatici, strumento progettati per lavorare in modo completamente autonomo. Controllano che tempo fa, mettono a fuoco le ottiche, procedono nell'elenco delle osservazioni e si assicurano persino di avere azoto a sufficienza per raffreddare i loro rivelatori. "sa solo lavorare", ribadisce Alex Filippenko (Università della California, Berkeley), uno dei principali fruitori del KAIT.

Il punto forte di simili strumenti sta nella loro abilità nel fare un lavoro noioso con molta precisione ed affidabilità. Facendo leva su questo punto, il KAIT è diventato il principale telescopio del Lick Observatory Supernova Search (LOSS) guidato da Filippenko. La ricerca esamina sistematicamente un catalogo di 5.000 galassie (presto verrà portato a 14.000) comparando le vecchie immagini alle nuove. Se viene rilevata una differenza tra le due, per esempio se un campo ha una stella non visibile in precedenza, viene registrato l'evanto ed avvisati gli astronomi a Berkeley.

Il sistema non è perfetto. Filippenko sorride apertamente a proposito di alcune goccie di pioggia che hanno colpito il telescopio e "pulito lo specchio" ma, a dispetto dei problemi meteorologici, lo strumento ha fornito una mole incredibile di dati. Ogni notte, circa una dozzina di sospette supernovae viene annotata per ulteriori osservazioni. Sebbene molte di queste si rivelino essere falsi allarmi, nel 1998, il primo anno del progetto, il LOSS ha scoperto 19 supernovae. Lo scorso anno il numero totale di scoperte ha raggiunto quota 40 e quest'anno, alla data del 5 giugno, siamo arrivati a quota 12 (le cattive condizioni meteorologiche riducono le scoperte nella prima parte dell'anno).

Un altro vantaggio del programma telescopio robotizzato è dato dalle possibilità educatiche che consente. Le potenziali supernovae che il KAIT scopre ogni notte vengono spesso studiate dagli studenti di Berkeley. Quando viene fata una scoperta, questi si prendono il merito insieme ai principali ricercatori. Il KAIT è stato utilizzato anche per gli esecizi di laboratorio delle classi come la determinazione della massa di Giove, partendo dalla monitorizzazione delle orbite delle sue lune.

-- David Tytell


Venerdi 2 giugno

A sinistra: Queste mappe segnano dove è caduto sulla Terra il meteorite del lago Tagish. L'ellissi nell'ingrandimento mostra l'area dove si sono sparsi i frammenti, grandi come furgoni, dopo una serie di esplosioni a mezz'aria (detta area di dispersione). A causa delle nevicate, non è stato possibile recuperare i frammenti del meteorite sulla superficie del lago. Si ringrazia Peter Brown. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Recuperato un raro meteorite

Lavorando contro il tempo ed il ghiaccio che si scioglieva velocemente, gli scienziati canadesi hanno recuperato dalla superficie di un lago ghiacciato nella parte settentrionale della Columbia britannica, 500 frammenti di un raro meteorite. Il 31 maggio diversi pezzi, ancora incapsulati nel ghiaccio, sono stati mostrati ad una conferenza stampa a Calgary, nell'Alberta, dove i ricercatori hanno parlato, per la prima volta, dell'importante ritrovamento.

Il meteorite del lago Tagish, questo il nome ufficiale, cadde sulla Terra la mattina del 18 gennaio, come testimoniarono gli abitanti dello Yukon meridionale, che videro una sfera infuocata che offuscò il Sole. Il 27 gennaio Jim Brook, un astrofilo residente nelle vicinanze, era sulla superficie ghiacciata del lago Lake sul versante dello Yukon. "Stavo cercando attentamente le meteoriti ed appena le vidi capii di averle trovate", ricorda. Brook raccolse tutti i frammenti che potè ponendoli in un sacchetto di plastica per non contaminarli. Il giorno successivo, una fitta nevicata rese difficoltosi ulteriori ritrovamenti.

Per trovarne di nuovi, si dovette aspettare la primavera. Dal 20 aprile all'otto maggio, i ricercatori dell'Università di Calgary e dell'Università del Western Ontario estrassero altri 500 pezzi dal lago ghiacciato (riscaldate dalla luce solare, le pietre scure avevano iniziato ad affondare nel ghiaccio). Secondo il leader del team Alan Hildebrand (Università di Calgary), i pezzi raccolti hanno una massa totale di forse 10 kg. Ed ancora centinaia se non migliaia di frammenti sono stati abbandonati ed andati irrimediabilmente perduti con lo scioglimento del ghiaccio.

In alto: il ricercatore dell'Università di Calgary Mike Mazur regge una parte del sistema solare primordiale, un meteorite ancora inglobato in un blocco di ghiaccio del lago canadese nel quale cadde in febbraio. Si ringrazia Alan Hildebrand. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Quella caduta nel lago Tagish è una rara e fragile condrite carbonacea, la più primitiva delle meteoriti e molti dei suoi frammenti sono stati recuperati ancora congelati. Le analisi preliminari di Monica Grady (Open University) indicano che le pietre sono inaspettatamente ricche di minerali carbonati ed inoltre, dice lei, il rapporti degli isotopi indicano l'inclusione di granuli interstellari.

Questa è anche la prima caduta di una condrite carbonacea che viene osservata ed è solo il quinto meteorite fra tutti di cui sia stata determinata l'orbita di arrivo. Utilizzando le immagini della sfera infuocata riprese dai satelliti del Dipartimento della Difesa, Peter Brown (Università del Western Ontario) ha calcolato che prima di colpire la Terra alla velocità di circa 16 km al secondo, il meteorite del lago Tagish era un miniasteroide di 200 tonnelate delle dimensioni di un furgone ed orbitava intorno al Sole con un'orbita ellittica che si estendeva sino al bordo esterno della cintura principale degli asteroidi.

Per ulteriori dettagli, leggete il comunicato stampa online dell'Università di Calgary e quello dell'Università del Western Ontario.


Venerdi 2 giugno

A sinistra: Per trovare delle zone con temperatura variabile su Plutone (in alto) ed la sua luna Caronte, gli astronomi hanno utilizzato l'Infrared Space Observatory. Questa ripresa della coppia venne ripresa dall'Hubble Space Telescope nel 1994. Si ringraziano R. Albrecht, ESA/ESO Space Telescope European Coordinating Facility; NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Quanto è freddo Plutone?

Mentre la sua distanza tiene lontani gli astronauti dal prelevare campioni del suo terreno, studi recenti di un team internazionale ha esaminato la sottile superficie del pianeta. Guidati da Emmanuel Lellouch (Osservatorio di Parigi), utilizzando l'Infrared Space Observatory dell'Agenzia Spaziale Europea, gli astronomi hanno puntato Plutone per otto volte nel 1997. Hanno misurato il calore emanato dal sistema Plutone-Caronte ed ottenuto una "curva di luce" alle lunghezze d'onda termiche. Un precedente studio della temperatura del pianeta, effettuato da Mark V. Sykes (Università dell'Arizona) ed altri avevano immaginato che simili variazioni avrebbero dovuto esserci. Il team di Lellouch ha scoperto che alcune regioni della superficie di Plutone hanno una temperatura di -235° Celsius ed altre arrivano a "appena" -210° C.

Non sorprende che queste variazioni di temperatura siano legate a diffrenti albedo del pianeta. Le regioni più chiare hanno temperature più basse di quelle scure anche se temperature ed albedo non sempre hanno gli stessi valori. Uno scostamento della curva termica relativamente alla luce visibile ha portato Lellouch ed il suo team a dedurre che la parte superiore delle aree scure sia, probabilmente, porosa. Secondo Lellouch, queste regioin "sono formate probabilmente da CH4 [metano] ghiacciato" e da materiale organico più complesso prodotto dall'esposizione del ghiaccio alla radiazione.

Per ulteriori dettagli, leggete il comunicato stampa online.


Giovedi 1 giugno

A sinistra: Sono quattro le accensioni del motore che abbasseranno l'altitudine del Compton Gamma Ray Observatory forzandone il rientro nell'atmosfera. La prima è stata effettuata il 30 maggio. Le ultime due avverrano il 4 giugno, nel giro di qualche ora il satellite dovrebbe incenerirsi sull'Oceano Pacifico. Si ritiene che qualche frammento potrebbe sopravvivere al rientro. Si ringrazia la NASA. Cliccate sull'immagine per ingrandirla.

Si avvicina il tuffo di domenica del Compton Observatory

Ultimi giorni del Compton Gamma Ray Observatory come satellite orbitante. Dopo nove anni di servizio, domenica 4 giugno dovrà rientrare nell'atmosfera e tuffarsi nel Pacifico a circa 4.000 km a sud-est delle Hawaii. Il CGRO è così grande che siverse decine di frammenti potrebbero sopravvivere al rientro e gettarsi in acqua alla velocità di circa 300 km l'ora. La probabile zona dell'impatto si trova centrata sull'equatore e misura 25 x 1.500 km.

I controllori di volo stanno abbassando il satellite poco alla volta con quattro accensioni del motore per portarlo sino all'interno dell'atmosfera. Le prime due sono avvenute il 30 e 31 maggio, le ultime due avverranno il giorno del rientro. L'impatto dovrebbe esserci alle 06:20 Tempo Universale (07:20 ora italiana) di domenica.

La distruzione del satellite è stata decisa perché secondo le linee guida della missione, se uno dei tre giroscopi si fosse guastato, come è avvenuto infatti il 19 dicembre scorso, la missione stessa si sarebbe conclusa. Con due giroscopi la sonda avrebbe potuto ancora essere controllata ma, nel caso un'altro fosse andato fuori uso, sarebbe divenuta incontrollabile. In marzo, Edward J. Weiler, Amministratore Associato dell'Office of Space Science della NASA, spiegò che c'era un 10 per cento di probabilità che un secondo giroscopio si fosse guastato entro i prossimi tre anni. Se la sonda fosse caduta sulla terra senza alcun controllo, ci sarebbe stata una possibilità su 1000 di provocare delle morti.

La missione del CGRO doveva durare 5 anni ma per quasi 9 ha continuato a fornire informazioni utili. Per un resoconto della missione e delle sue scoperte leggete il numero di luglio di Sky & Telescope (pagina 48).


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